(Università Roma )
L’obiettivo di questo saggio è indagare le modalità e i tempi con i quali una specifica narrazione sul fascismo si è formata e ha circolato in Italia a partire dalla fine della guerra. Si cercherà in particolare di ricostruire i meccanismi argomentativi attraverso i quali definite culture politiche hanno messo in atto una strategia di rivalutazione del fascismo nei primi dieci anni di vita della Repubblica. Il saggio esaminerà tre riviste: «L’Uomo qualunque» diretto da Guglielmo Giannini, «Candido» di Giovannino Guareschi e «Il Borghese» di Leo Longanesi, pubblicati rispettivamente dal 27 dicembre 1944, dal 15 dicembre 1945 e dal 15 marzo 19501. L’indagine è condotta a partire dal primo numero pubblicato a quelli stampati nel 1956. Le tre riviste appartengono a un settore della stampa che è stata considerato dalla storiografia come moderato e orbitante nell’area della zona grigia: categorie forse eccessivamente fluide e utili più a semplificare che a comprendere questo settore della pubblicistica2.
La narrazione del fascismo proposta da questi tre periodici e i meccanismi argomentativi da essi utilizzati per descrivere la storia d’Italia si inseriscono a pieno titolo nel discorso pubblico italiano sul regime che ha attraversato tutte le culture politiche sin dalla caduta del fascismo3. Nella prima parte di questo saggio si ricostruiranno i principali stilemi narrativi utilizzati dalle riviste per scrivere di fascismo. Nelle conclusioni, si farà qualche cenno, prevalentemente in forma di ipotesi, a quali siano ancora oggi le eredità di questo formulario lessicale e semantico nel discorso pubblico.
Il Borghese, n. 1, 15 marzo 1950.
L’Uomo qualunque, n. 23, 25 luglio 1945.
Candido, n. 24, 15 giugnio 1946.
Strategie discorsive e l’invenzione del fascismo
L’intento di queste riviste, in particolare «Candido» e «Il Borghese», è decostruire il mito resistenziale: tutto del fascismo può essere rivalutato, a patto che questa riabilitazione, che sconfina a tratti nell’apologia, consenta di rompere il patto antifascista. L’obiettivo probabile di questa strategia è quello di spostare a destra la Democrazia cristiana, ma le riviste e le aree culturali che esse rappresentano non hanno forze commisurate a tale fine. Le narrazioni sul fascismo presenti sui tre periodici non sono assimilabili a unico modello interpretativo – le tre testate si differenziano su alcuni temi, per quanto il milieu culturale di appartenenza sia piuttosto omogeneo e netta sia la condivisione delle idiosincrasie – ma tutte e tre condividono meccanismi argomentativi non distanti. Il lessico, le strategie discorsive, i luoghi semantici con i quali le riviste affrontano la scrittura del fascismo sono costitutivi di una retorica che sopravvive ai periodici. È una comunicazione immediata, facile, schematica, talvolta falsificata, fortemente ideologica e propagandistica. La sua efficacia, da commisurarsi non solo sulle tirature dei giornali, ma sulla circolazione di alcune opinioni e idee sul fascismo divenute parte del senso comune, riposa anche sulla costruzione della comunicazione stessa. Obiettivo di questo scritto è allora individuare alcune delle numerose strategie discorsive attraverso le quali nel secondo dopoguerra, nella destra anticomunista, si è parlato del fascismo, in modo da individuare le strutture di un discorso la cui eco continua a manifestarsi in forme non dissimili anche in tempi recenti.
Il ricorso a una rappresentazione banalizzante e riduttiva, in termini quantitativi e qualitativi, della violenza fascista; la messa in rilievo dell’umanità a discapito della politicità di Mussolini; l’impiego del paradigma vittimario per schematizzare la storia recente degli italiani non comunisti, canone interpretativo da realizzarsi attraverso due gesti opposti e complementari: il silenzio sui crimini italiani e la segnatura4 della sofferenza subita dagli italiani; l’attacco ad personam a cui si connette la despecificazione del nemico come moduli per ritrarre gli avversari politici; l’impiego insistito della falsa analogia: sono questi gli strumenti retorici più evidenti con i quali è strutturata la rappresentazione del fascismo proposta da questa selezione di periodici. È possibile individuare come ricorrenti alcune tecniche discorsive piuttosto che altre in relazione a certi temi, sebbene spesso diverse costruzioni compaiano nella trattazione dello stesso tema e anzi, l’utilizzo combinato sostenga l’impianto del discorso e lo renda possibile. Si è scelto qui di indagare la tendenza narrativa prevalente impiegata dalle riviste per affrontare una selezione di questioni fondamentali inerenti alla storia del fascismo.
Giovannino Guareschi, condirettore e poi direttore di Candido (fotografia del 1945).
Banalizzazione della violenza fascista
Tratto condiviso e manifesto delle riviste è una costante banalizzazione della violenza fascista. Il regime fascista, dalle sue origini al conflitto, è rappresentato come un sistema politico che agisce una violenza di bassa intensità. La banalizzazione della violenza, da intendersi come estrema semplificazione e normalizzazione di un tratto costitutivo e identificativo dell’ideologia e della prassi fascista, è riscontrabile su tutti i periodici e opera a diversi livelli. Si possono individuare come strumenti funzionali a sottostimare l’incidenza della violenza fascista, almeno quattro modalità, tra quelle più evidenti e costitutive di questa narrazione: la riduzione del portato ideologico; la descrizione parodistica e aneddotica della pratica violenta, per mezzo della quale la violenza è ridotta a gesto goliardico; l’uso strumentale e vittimistico che di essa avrebbero fatto gli antifascisti per ottenerne in cambio il riconoscimento di perseguitati politici; la falsificazione di dati di realtà. L’esito cercato è quello di attenuare la specificità del fascismo rispetto ad altre ideologie.
Al tempo stesso, l’ambizione di questo discorso è di “smitizzare” l’antifascismo di sinistra e di delegittimare la sua partecipazione alla vita politica nell’Italia repubblicana. Ciò appare evidente, ad esempio, dal modo in cui le riviste presentano l’ascesa del fascismo: essa è una reazione, discutibile nel merito ma necessaria nel suo sorgere, al rischio che sull’onda della rivoluzione bolscevica il comunismo si affermasse anche in Italia. Il successo del fascismo non ha quindi una connotazione ideologica, ma viene quasi presentato come una reazione dettata dal buon senso contro un rischio ritenuto incombente. A questo proposito è inequivocabile quanto scrive «Candido» nel 1947. Mussolini era «un uomo pericoloso» e provvidenziale al tempo stesso: agì come «rimedio al male: e il male erano gli scioperi, le violenze, i soprusi, i soldati e gli ufficiali svillaneggiati e percossi, lo sfacelo economico scientificamente incoraggiato da un branco di gente al servizio palese di potenze straniere». Il fascismo nasce perciò «per colpa delle sinistre»5. Questa lettura della violenza fascista è indicativa della cultura politica delle riviste: orientata a destra, intollerante verso il conflitto di classe e verso ogni proposta che metta in discussione la sacralità della proprietà privata. La proiezione e l’appiattimento del passato sul presente sono lo strumento utilizzato per esporre una retorica anticomunista e autoritaria al tempo stesso.
La deideologizzazione e la sottovalutazione dell’incidenza della violenza fascista è una strategia narrativa alla quale L’Uomo qualunque fa ricorso con un eufemismo, ad esempio sottolineando la natura immaginaria più che realmente praticata della violenza, e facendo ricorso a un dato conforme alla realtà fattuale quale la giovane età degli squadristi, ma con l’obiettivo di attribuire il ricorso alla forza a una disposizione fisica e temperamentale, sminuendo perciò la componente politica di quella prassi6. L’eufemismo è lo strumento a cui anche Il Borghese ricorre quando riduce lo squadrismo di provincia a mero «dannunzianesimo»7, presentando perciò come atto estemporaneo e isolato una violenza che si caratterizzava per la sua capillarità, per la sua organizzazione, per i reticoli sociali ed economici che la sostenevano. L’argomento della giovinezza degli squadristi, poco o nulla armati, è usato come attenuante delle loro pratiche in una descrizione costruita appunto per eufemismi e alterazioni di dati di realtà: gli squadristi, «ragazzi svelti di mano, allegroni, ignoranti come rape», partecipano alla vita politica perché «volevano quasi esclusivamente far colpo sulle donne»8. La violenza dunque è solo gesto esteriore, simbolo di virilità e emblema di un supposto carattere atavico degli italiani.
La descrizione falsificata della violenza fascista raggiunge il parossismo nel momento in cui Antonio Siberia, pseudonimo del giornalista Indro Montanelli9, sulle pagine de «Il Borghese» giudica il sistema repressivo fascista alla stregua di un «compromesso che non si è mai saputo cosa diavolo fosse» che si realizza «mandando in vacanza balneare poche persone, non uccidendone nessuna»10. La «vacanza balneare» di cui parla Montanelli è, in realtà, il confino, quindi uno degli strumenti di repressione delle opposizioni politiche che più identificano il regime fascista.
La continuità tra fascismo e democrazia è ribadita dalla rivista qualunquista e troverebbe conferma proprio nelle istituzioni repressive del regime, confino e Tribunale Speciale11, ma la continuità non è tuttavia completa ed è la seconda ad essere in difetto rispetto al primo: «i successori del fascismo», attraverso delle leggi «comunistoidi», avrebbero nell’ordine ripristinato «il confino e la persecuzione alla stampa indipendente, lo squadrismo e la violenza politica a fine privato», emulando così leggi «fascistoidi», ma senza curarsi «affatto né di prosciugare paludi né di compiere altri lavori di pubblica utilità»12. Il fascismo sembrerebbe quindi assumere un’accezione positiva perché, pur avendo instaurato un sistema repressivo totalitario13, aveva tuttavia mostrato un’attenzione per le opere pubbliche. Questa cifra sociale mancherebbe invece ai partiti in età repubblicana, egemonizzati dai comunisti (“leggi comunistoidi”) ed emuli soltanto degli apparati coercitivi del regime.
Il funzionamento del Tribunale speciale viene banalizzato anche nel caso di «Candido» e ciò accade, significativamente, non appena esso viene a incrociarsi con la polemica anticomunista. L’essere stati condannati, e poi graziati, dal Tribunale Speciale è strumento per far carriera, come intende dimostrare il periodico attraverso il caso del comunista Emilio Sereni14, sul quale la rivista si attarda per mettere in scena l’opportunismo di alcuni antifascisti che nel dopoguerra tenterebbero l’ascesa politica e sociale vantando un passato di falsi perseguitati politici.
Una riflessione sintetica ed emblematica sull’apparato repressivo fascista è proposta nel 1956 dal «Borghese», per mezzo della firma di uno dei suoi autori più influenti, Giovanni Ansaldo. La polemica anticomunista così come la rappresentazione falsificata e in termini riduttivi della violenza trovano il loro acme. Nell’articolo di Ansaldo si evidenzia il carattere imitativo del fascismo rispetto a un modello originale impostosi con la Rivoluzione russa e che aveva fatto della violenza un «mezzo normale di governo». Gli strumenti dell’apparato repressivo fascista, «l’impianto del Tribunale Speciale, la instaurazione di una polizia segreta politica con la sua brava sigla misteriosa, l’introduzione della pena di morte, la ricusazione di grazia», non sarebbero il frutto di una deliberata e progettuale trasformazione del sistema liberale in un regime di ispirazione totalitaria, ma conseguenze della «voglia» di Mussolini di conformarsi «al nuovo clima morale portato nel mondo dalla Rivoluzione d’ottobre». Il desiderio provato «sottopelle» da Mussolini «di fare un po’ il russo anche lui» si rivela velleitario: gli italiani erano «molto più adatti a mangiare» che «a praticare un regime di terrore» e Mussolini stesso «era una pasta in confronto a quello che c’era fuori, in tutti i paesi», «siccome infine Benito non era mica tanto cattivo»15. In un’altra occasione il dittatore è definito un «brav’uomo» che aveva adoperato la violenza, ridotta a «calci nel sedere». per «domare questo paese difficile, riottoso, litigioso, problematico, e farlo andare avanti».
In questo caso la violenza appare uno strumento necessario e efficace non solo durante il fascismo, ma anche nell’Italia del dopoguerra perché «il discorso politico italiano è infatti talmente sconnesso, rumoroso, confuso, come una zuffa in una osteria, che, quanto è vero iddio, certe volte verrebbe la voglia di afferrare un bastone, un corpo contundente qualsiasi, e cominciare a menare colpi da orbi»16. La violenza fascista, restituita icasticamente in una versione falsificata, è considerata necessaria, sinonimo di una politica efficace, a tratti un atto di buon senso di fronte alla “litigiosità” (ossia alla dialettica) tipica di un sistema democratico. Questa rappresentazione della violenza è resa efficace non solo perché manipola dati di realtà, ma anche perché poggia sul silenzio. Non una riga, ad esempio, è dedicata ai crimini fascisti commessi durante l’impresa coloniale, giudicata un’opera civilizzatrice.
Paradigme victimaire
L’uso strumentale della categoria di vittima è tipico delle riviste, con un evidente ribaltamento dei ruoli tra la vittima e il carnefice17. Inoltre, il sentimento di sofferenza è utilizzato per definire i limiti della comunità nazionale. Tre casi risultano particolarmente significativi: la descrizione del delitto Matteotti fornita da «Il Borghese», il lancio di una iniziativa di solidarietà avanzata da «Candido» per alcune donne rinchiuse in carcere e infine l’interpretazione della Seconda Guerra Mondiale proposta da «L’Uomo qualunque».
Leo Longanesi, direttore de Il Borghese (fotografia del 1956).
La rivista di Longanesi riserva diversi articoli al fascista Amerigo Dumini, capo della squadra che, nel 1924, assassinò il deputato socialista Giacomo Matteotti. Dumini compare sulla rivista per la prima volta in quanto autore di Diciassette colpi, un testo edito dalla medesima casa editrice del periodico, a cui «Il Borghese» dedica una recensione nel 1950. La vicenda di Dumini è seguita per dimostrare l’iniquità della sua condanna. L’ingiustizia è misurata su due piani. Il primo è rappresentato dal punto di vista giuridico: la rivista sostiene la tesi dell’omicidio preterintenzionale – Dumini si sarebbe ritrovato a guidare la macchina che nascondeva il cadavere di Matteotti «con una tremenda consapevolezza nel cuore di avere compiuto qualche cosa di irreparabile»18, sebbene fosse stato condannato per omicidio premeditato dalla Corte d’Assise Speciale nell’aprile del 1947; il secondo è relativo alla sofferenza provata da lui e dai famigliari per la pena inflitta dalla giustizia. Nei suoi confronti è invocata la pietà cristiana. La Repubblica cercherebbe perciò capri espiatori in chi ha commesso reati meno gravi di quelli attribuiti ai comunisti Ortona, Moranino, Gorreri e Roasio, che hanno poi beneficiato dell’amnistia e ottenuto anche una «medaglietta parlamentare».
Lo Stato italiano, per la rivista, ha saldato ormai il suo «debito, se debito ci fu»19 con la famiglia Matteotti. E il debito è stato estinto in primo luogo grazie all’intervento di Mussolini stesso che aveva versato aiuti monetari alla famiglia del socialista ucciso, come se il saldo con la memoria degli antifascisti caduti vittime del regime potesse essere quantificato e risolto non politicamente ma mediante una semplice causa civile. Pietà cristiana e perdono sono dovuti più a Dumini che a Matteotti. Il primo ha espiato con la sua sofferenza e con quella provata dalla moglie, alla quale è dedicato uno scritto costruito su un climax teso a rendere in maniera vivida il dolore di questa «povera donna (…) inerme, sola, malata», «morta perché le si era spezzato il cuore», «piegata da un destino particolarmente crudele». In nome del dolore della donna il «povero Amerigo Dumini» ha diritto «al nostro perdono assoluto»20. La sofferenza provata, della quale la rivista si avoca il ruolo di testimone e portavoce, trasforma Dumini in vittima. L’omicidio di Matteotti perde ogni sua politicità e specificità, se la pena da scontare è considerata già espiata perché commisurata al sentimento di dolore e non al diritto. In questione non è la colpa di Dumini, ma la capacità di concedere il perdono al pover’uomo da parte di chi assiste al suo dolore. Il ribaltamento vittima/carnefice è totale; l’empatia e la pietà sono rivolte esclusivamente al carnefice che soffre per le conseguenze di un delitto su cui la rivista non intende indugiare. È sufficiente la sua sofferenza per scagionarlo da ogni accusa; la riabilitazione, sul piano morale e giuridico, del membro principale della squadra che organizzò e perpetrò l’omicidio è totale.
A sinistra: L’Uomo qualunque, 29 agosto 1945, n. 28, p. 3.
À destra : L’Uomo qualunque, 22 agosto 1945, n. 27, p. 3.
Il ribaltamento dei ruoli per mezzo dell’esibizione della sofferenza del carnefice del quale la rivista intende farsi testimone si riscontra anche in merito ad alcuni casi di collaborazionismo. «Candido» nel 1951 pubblica la lettera di Padre Blandino Della Croce, delatore e cappellano della Guardia Nazionale Repubblicana21. L’uomo religioso vuole sottoporre ai lettori del periodico «qualche caso pietoso di quelli che interessano la mia “sfortunata crociata per la pacificazione”». Protagoniste di questa campagna sono quelle «mamme» e quelle «spose», che ancora oggi sono «in carcere» perché «condannate dalle Corti d’assise straordinarie nel periodo che va dal ‘45 al ‘47 per collaborazione col tedesco»22. Il religioso, e tramite lui la rivista, intende raccogliere denaro per poter pagare alle donne, in condizioni di estrema povertà, gli avvocati e impugnare la sentenza di colpevolezza in Cassazione. Su «Candido», come sul periodico di Longanesi, il ribaltamento dei ruoli avviene eludendo o tacendo la ragione dell’incarcerazione, arrogandosi il diritto di testimoniare un definito stato d’animo, mettendo in relazione inversamente proporzionale colpa e sofferenza e sostituendo l’espiazione al carcere. E così la rivista prende le parti per la “vittima” Anna Maria Cattani, colpevole di delazione, partecipazione ad arresti e interrogatori e sevizie, condannata all’ergastolo e poi libera per amnistia nel 195323 o Linda Dell’Amico che, coinvolta direttamente nella strage del 16 settembre 1944 a Bergiola Foscalina, in provincia di Carrara, era stata condannata all’ergastolo per i reati di concorso in strage e rastrellamenti, scarcerata dopo 6 anni e 7 mesi di carcere24. Anche in questo caso la sofferenza è esclusivamente quella patita dal carnefice e, di nuovo, dai suoi cari, in particolare i figli, resi orfani da uno Stato cieco e vendicatore. Quelle in carcere sono mamme e dunque immediata deve essere la scarcerazione di queste «creature disgraziate»25. Per inciso, nel 1951, «Candido» mira a uno spostamento a destra del sistema politico italiano e si rivolge anche agli elettori del Movimento Sociale26, per questo rivaluta le biografie di due criminali fasciste. Diverso il caso, infine, de «L’Uomo Qualunque» che applica la categoria di vittima indistintamente a tutti gli italiani, colti impotenti sotto le bombe negli scritti in particolar modo apparsi nella seconda metà degli anni Quaranta e poi in armi sui fronti nel periodo 1950-1956, annullando in questo modo qualsiasi riflessione sulle cause di quelle violenze che restano irrelate rispetto alle sempre taciute responsabilità degli italiani nella Seconda guerra mondiale.
La despecificazione del nemico
Domenico Losurdo ha individuato, nel contesto dei conflitti totali, la necessità di limitare «la compassione generale» perché di ostacolo al dispiegarsi «della violenza più brutale». Per permettere un uso privo di «impacci e inibizioni» della violenza, bisogna presupporre un atto «di “despecificazione” del nemico» che comporti «l’esclusione o espulsione di determinati gruppi etnici, sociali, politici della comunità fornita di valore, dal consorzio propriamente civile e persino dal genere umano»27. Se uno dei casi più emblematici di despecificazione del nemico si ritrova nell’aggressione fascista all’Etiopia e nel trattamento delle popolazioni autoctone, tematica quest’ultima che non ha spazio sui periodici se non nella forma di un elogio della battaglia per esportare “la civiltà” realizzata dal fascismo, l’applicazione di questa categoria appare utile anche nel caso dell’esame dei periodici e nella modalità con la quale vengono trattati gli avversari politici e i partigiani. La despecificazione si realizza non solo verso gli Alleati – non manca la cifra razzista nelle descrizioni di alcune azioni delittuose commesse da soldati qualificati come «negri»28 nei confronti di italiani, e si precisa, bianchi – ma è l’arma retorica più diffusamente insistita per rappresentare il partigiano, il nemico interno. La forma più esplicita di questa impostazione si ritrova in «Candido», benché tutti i periodici vi partecipino. L’intento politico è il medesimo: screditare la Resistenza, e la componente comunista all’interno di essa in particolare, per togliere legittimità alla Costituzione e alla Repubblica e orientare l’elettorato verso una crociata anticomunista.
La despecificazione del nemico, attraverso la sua espulsione dal consesso nazionale, e l’attacco ad personam costituiscono la modalità narrativa per mezzo della quale «Candido» affronta la Resistenza. Nei primi anni di pubblicazione della rivista al centro è l’attenzione per la violenza successiva al 25 aprile. Le foibe29, i ritrovamenti degli uccisi dopo il 25 aprile, gli assalti alle sedi di partito, la scoperta di depositi di armi30, i pestaggi, i bilanci sul numero degli eliminati31, sono i contesti narrativi prevalenti nei quali compaiono in azione i partigiani che agiscono, nel nuovo sistema democratico, una violenza che non mostra soluzioni di continuità con quella del biennio 1943-1945.
Negli scritti sulla Resistenza è ricorrente l’attacco ad personam, rivolto contro, tra gli altri, i partigiani comunisti Davide Lajolo32, Francesco Moranino33; Silvio Ortona34. L’attacco diretto e individuale è una modalità che consente non solo di screditare singole personalità della Resistenza, ma anche di presentare la Guerra di Liberazione come una sequela di episodi violenti – uccisioni di innocenti italiani, furti, devastazioni – che non sembrano avere finalità altra che quella di rispondere a bassi istinti di rivalsa e di pareggiamento di conti. È una violenza delinquenziale che il fascismo era riuscito a contenere e che ora trova libera espressione e assenza di regole in un contesto di guerra. Allo stesso tempo, in altri scritti, quella dei partigiani è invece una violenza specificatamente politica e indirizzata a sfruttare il contesto di guerra per imporre, attraverso l’eliminazione fisica dei nemici, prima e dopo il 25 aprile, la vittoria degli stranieri russi e il trionfo del comunismo. L’attacco trova la sua forma più gretta quando è diretto contro le donne comuniste. La loro squalifica politica è basata su un giudizio estetico: esse sono ritratte come poco avvenenti e decisamente poco aggraziate e su questa immagine negativa è costruito il giudizio politico su di loro35.
Con il radicalizzarsi a destra della rivista e lo scontro aperto con la Democrazia cristiana, che secondo la rivista avrebbe dovuto aprire al Movimento Sociale, comincia inoltre un’opera di rivalutazione di alcuni repubblichini36. «Candido» è netto nell’individuare nella Resistenza un pericolo ben maggiore di quello rappresentato dal fascismo. I comunisti, infatti, «per (…) aver combattuto contro il fascismo, appaiono ancora agli occhi di qualcuno come dei combattenti per la libertà, quando è risaputo che il loro scopo era di abbattere una dittatura per sostituirla con un’altra assai più pesante e di marca straniera»37. La rivista opera su due livelli: da un lato sottolinea la necessità, il dovere morale, di reintegrare i repubblichini nella società italiana attraverso il riconoscimento di alcuni diritti civili38, dall’altro rimarca l’origine straniera delle forze comuniste in Italia. Il periodico insiste sull’italianità dei fascisti e degli eliminati per poter sostenere la pacificazione a senso unico tra gli italiani e per fondare una narrazione della guerra civile come scontro tra potenze nazionali e antinazionali. I comunisti durante la Resistenza erano «combattenti intrepidi e agguerriti» dotati di «naturale e istintiva inclinazione a quel genere di lotta» e oggi continuano ad essere le «quinte colonne dell’esercito bolscevico»39. L’autore sostiene che «la struttura necessaria per la conquista armata del potere esiste ed è tuttora efficiente, ma il suo funzionamento è subordinato alla ‘tattica’ imposta dalle circostanze internazionali»; «e domani – se la situazione internazionale consiglierà il Partito ad una tattica di forza», gli ex partigiani comunisti «saranno gettati allo sbaraglio convinti di servire la causa dei lavoratori ed in effetti per agire da quinta colonna dell’Esercito bolscevico». I comunisti sono una forza antinazionale e al soldo di una potenza straniera pericolosa quale l’Unione Sovietica.
Il discrimine tra le vittime e i carnefici viene dunque stabilito a partire dall’elemento dell’appartenenza nazionale. Una strategia retorica che ovviamente funziona se si tacciono i crimini fascisti e nazisti. Quando questi ultimi sono ricordati, essi sono totalmente slegati dall’azione degli italiani: la strage nazifascista di Marzabotto è, ad esempio, ricondotta esclusivamente alle forze naziste40. Data questa premessa, il 25 aprile – la festa della Liberazione41 che commemora la Resistenza e la sconfitta dei fascisti e dei nazisti – è una giornata divisiva che deve essere espulsa dal calendario repubblicano, secondo un topos riscontrabile anche sugli altri periodici42. È da notare che solo in questo caso i partigiani non sono più stranieri al soldo dell’Urss, ma italiani. È il dato di guerra civile che permette di sostenere l’inopportunità del ricordo: l’Inferno dei venti mesi, che «divise i figli d’una stessa terra», non «dev’essere oggetto di pubblica memoria e onoranza, come in una famiglia pacificata non si devono conservare le tracce di antiche liti»43.
La propaganda anticomunista, e con essa il tentativo di denazionalizzare il nemico interno comunista, trova il suo apice quando l’attenzione è volta alla storia dei confini orientali italiani44 e alla questione delle foibe45, epicentro della violenza slava e comunista contro gli italiani, secondo un modulo che insiste sull’alterità ideologica e etnica del nemico. La descrizione degli slavi che assaltano i territori italiani è forse la scrittura che più compiutamente mette in atto quella despecificazione del nemico su cui si fonda larga parte della retorica anticomunista di questa cultura politica. I titini sarebbero quindi ben peggiori dei nazisti e con il loro arrivo in città, il 3 maggio 1945, «aveva inizio lo spaventevole […] per la città Olocausta», «le orde titine che varcarono la fiumara non avevano da invidiare certo, mutatis mutandis, a quelle di tamerlano o di Gengis Kan: uomini laceri e sudici, barbuti e cenciosi, donne a cavalle armate fino ai denti, autentiche megere, virago indemoniata l’una, furia scatenata l’altra, e tutte prive di ogni e qualsiasi anche residua femminilità […] Tutti di sangue setibondi, […] affamati com’erano di ogni cosa, oggetto, aggeggio che fosse»46. L’alterità etnica del nemico, quando questi è comunista e di origine slava, è sostenuta anche da «Il Borghese», in una forma però mediata perché affidata alle parole del «dottor Paul Schmidt», l’interprete di Hitler che spende alcune parole sull’Italia in quella che sembra una intervista raccolta da Alfred Boensch, firma del giornale. Rispetto a Hitler, «Mussolini era un tipo mediterraneo, dai pensieri più chiari e umanamente più simpatico». Tale differenza caratteriale è ricondotta una differenza data e naturale che avrebbe originato frizioni tra fascismo e nazismo e accomunato invece nazismo e bolscevismo. «Il nazionalsocialismo, in fondo, era un fenomeno orientale, imparentato col mondo slavo per il suo culto della gerarchia e della subordinazione». Lo stereotipo del fascismo dal volto umano e il mito del bravo italiano emergono con nitidezza: «Il fascismo invece non ha mai perso il suo substrato di cultura occidentale». L’Italia, continua il testo, era più malleabile e «non si arrivò mai al radicalismo»47. Lo scritto non indica chiaramente quale sia la posizione del giornale rispetto a queste dichiarazioni, tuttavia, dato il tono di ammirazione espresso nei confronti dell’interprete di Hitler, è possibile supporre che il periodico faccia propria la contrapposizione etnica tra mondo occidentale e mondo slavo. Il testo è emblematico di una serie di differenti stereotipi e di strategie narrative ricorrenti. Si staglia con chiarezza anche il ricorso alla falsa analogia, chiave di accesso alla possibilità di usare il riferimento alla Shoah in chiave anticomunista.
L’Uomo qualunque, 3 gennaio 1946, n. 1.
False analogie
«La falsa analogia» è uno tra gli «strumenti» per mezzo dei quali si compie «un uso politico del passato», da intendersi come «l’uso di fatti realmente avvenuti attraverso una manipolazione arbitraria e tuttavia persuasiva per un pubblico più sensibile agli slogan che alla riflessione complessiva sul passato»48. La figura retorica è tra le più praticate dalle riviste prese in esame e, su queste, è indice di una estrema povertà concettuale e lessicale: l’argomentazione è sostituita dall’invettiva, l’evidenza della prova è scalzata dall’opacità della somiglianza, la continuità e non la cesura è il fondamento della scrittura. È qualcosa di più di una semplice strategia retorica. È un discorso che si fa propaganda nel momento in cui è pronunciato. Le riviste istituiscono somiglianze, risolte talvolta in equivalenze, tra realtà differenti e spesso irriducibili. La falsa analogia è la struttura argomentativa che consente di proporre, ma non spiegare, una precisa interpretazione del fascismo ed è applicata per richiamarne qualsiasi fase o evento, ma non per porre l’attenzione su questo, quanto sull’oggetto che aprioristicamente è considerato affine. Così, su «L’Uomo qualunque» il termine marcia, calcato dalla marcia su Roma, esemplifica l’agire dei Comitati di Liberazione, su «Candido» indica il movimento dei comunisti da Belgrado; altra falsa analogia già incontrata è quella costruita definendo uno degli strumenti repressivi più noti del fascismo, il confino, nei termini di una vacanza balneare, come si è visto. La falsa analogia è uno dei tratti distintivi della scrittura propria di questa cultura politica e trova uno dei suoi impieghi più evidenti nella narrazione della Shoah. Non è l’unica modalità attraverso la quale la Shoah è un tema attingibile e a cui è possibile fare riferimento, ma la più evidente. È il ricorso ad essa, oltre che alla precisa selezione degli argomenti da trattare, che rendono possibile inserire il tema della Shoah all’interno di queste riviste, senza inficiare una rappresentazione giustificazionista, riduzionista e banalizzante del fascismo.
La falsa analogia trova la sua resa più icastica in una vignetta apparsa nell’ottobre del 1946 su «L’Uomo qualunque». Sulla sinistra dell’immagine, una bandiera con la stella di David campeggia su una fiumana di uomini, spalle ricurve e naso aquilino, che volge lo sguardo verso gli uomini in divisa nazista ritratti a destra. Al centro un nazista corpulento, la cui identità è rivelata dalla didascalia: «Goering: Non capisco perché ci guardino in cagnesco, dopo tutto abbiamo fatto la loro stessa fine, negli stessi forni crematori»49. Il destino degli ebrei è analogo a quello di Göring: i forni crematori per entrambi e per mano di un carnefice non esplicitato. L’analogia qui istituita consente di falsificare in modo estremo e paradossale il dato di realtà sia per quanto concerne l’impostazione dei termini della corrispondenza sia nelle conseguenze conoscitive che ne deriverebbero. La vignetta appare a una settimana dal suicidio di Göring, avvenuto la notte prima della esecuzione delle condanne a morte emesse a Norimberga. L’obiettivo propagandistico è immediato: i processi di Norimberga non hanno ragione d’essere perché contestano agli imputati i medesimi crimini dei quali si macchia il tribunale stesso. Norimberga come sintesi dell’uso arbitrario del diritto e della legge vendicativa imposta dal vincitore al vinto è un argomento particolarmente insistito su «L’Uomo qualunque»50 e soprattutto su «Il Borghese». Non è negata la Shoah, ma c’è un netto rifiuto a considerarla nella sua specificità e gravità. L’ipotesi conseguente è che si intenda negare specificità anche ai crimini nazisti.
Obiettivo del periodico qualunquista è, in generale, sostenere la fluidità della categoria di carnefice – la Shoah diventa un caso di violenza di guerra – e nel caso specifico riabilitare il ruolo dell’Italia in guerra, tramutando le sue responsabilità in sventure. Giannini riporta la trascrizione di un suo discorso pronunciato alla Costituente con cui condannava i trattati di pace perché considerati iniqui e ne richiedeva il rinvio della discussione. Ed è proprio la Shoah l’argomento cardine utilizzato per sostenere l’equivalenza tra tutte le nazioni, e dunque, di rimando, l’impossibilità di operare una distinzione tra nazioni giudicanti e nazioni giudicate:
Noi abbiamo avuto durante il periodo della dittatura nazista una ignobile persecuzione contro un popolo, il popolo ebreo. Oggi questa persecuzione continua nelle medesime forme con la medesima mancanza di pietà, con il medesimo ritmo: esercitata semplicemente con altri uomini, da altri popoli, i quali fino a pochi anni fa condannavano quella persecuzione, combattevano per essa e hanno fatto combattere per essa tutto il mondo51.
L’equivalenza impone un ridimensionamento delle responsabilità dell’Italia nella guerra. Da respingere sono atteggiamenti propri della classe dirigente italiana: la «volontà del martirio» e «la malattia della colpa»52: l’Italia è sì sconfitta, ma non colpevole. La Shoah è il pretesto per sostenere una propaganda politica serrata, mascherata da battaglia morale, in difesa dell’Italia in armi. Il fondo di questa retorica è sempre l’anticomunismo ed è l’idea di totalitarismo a tracciare i nuovi confini dell’Europa, considerando che le divisioni imposte dalla guerra sono al punto sovvertite che «tedeschi e ebrei insieme fuggono dai paesi occupati dalla Russia verso nuove tribolazioni e verso nuove miserie, ma con la speranza di sfuggire al colpo di rivoltella alla nuca e alla Siberia»53.
La battaglia per sostenere l’anticomunismo, in sostituzione e antitesi all’antifascismo identificato con il comunismo e lo stalinismo, è costruita usando la Shoah. In piena guerra fredda, siamo nel 1953, l’analogia non è più sufficiente. Stalin è omologo di Hitler, quando si legge che «il regime comunista ha adottato i metodi di Hitler» in merito alle relazioni tra «il Cremlino e gli ebrei nell’Unione Sovietica» oppure che Stalin, prima di morire, avrebbe voluto «passare alla concezione nazista dell’ebraismo, e quindi preparare gli equivalenti dei Buchenwald tedeschi. Ma solo per gradi». All’equivalenza, stemperata da un accenno alle differenti tempistiche, si sostituisce l’ipotesi che a rappresentare il grado massimo di antisemitismo non sia Hitler, ma Stalin: «forse neppure» il primo, «nei suoi momenti di maggior frenesia, osò giungere al punto di gettare sulla comunità ebraica mondiale l’intero gravame delle accuse di imperialismo, cosmopolitismo, spionaggio e preparazione alla guerra», mentre si starebbe ora «svolgendo un’altra grande tragedia umana paragonabile ai giorni peggiori del nazismo». Il sunto di questa osservazione è «che i regimi totalitari, comunque si intitolino e si dissimulino, sono tutti dello stesso stampo»54.
Candido, 4 novembre 1956, n. 45.
Questa rappresentazione è solo parzialmente in tono con le teorie sul totalitarismo più influenti negli anni Cinquanta che tendevano a espungere la questione della Shoah per poter leggere in analogia comunismo e nazismo55. Il dato specifico di questa cultura politica è che i riferimenti alla Shoah non sono ovviamente illuminanti in merito allo sterminio degli ebrei, ma sono indicativi dell’aggressività del suo anticomunismo. Lo sterminio razziale - specificità del nazismo rispetto allo stalinismo - invece che tracciare uno spartiacque tra nazismo e comunismo è fondamento dell’analogia. Si rivela una falsa coscienza: esplicitamente si vuole sottolineare la genericità dello sterminio per poterlo proiettare sul caso sovietico, negandone dunque la paternità esclusiva del nazismo, dall’altro si usa proprio questo argomento perché considerato estremo ed eccezionale e dunque particolarmente efficace in un discorso di propaganda.
Il riferimento alla Shoah è funzionale a sostenere una retorica anticomunista anche su «Candido», il periodico che mostra la maggiore indifferenza per lo sterminio ebraico. Il pretesto per accennare alla situazione degli ebrei in Italia tra il 1943 e il 1945 è offerto da un articolo dedicato alla città di Fiume56. Evidente è la banalizzazione della tragicità degli eventi. «La vita di Fiume sotto i tedeschi non fu delle più allegre», si legge. I Nazisti «inizialmente cercarono di rendere meno insopportabile che fosse possibile la loro occupazione, per quanto si lasciassero prendere la mano dalla mostruosa infatuazione razziale: e a Fiume ci andarono purtroppo di mezzo, così, degli ottimi italiani». All’uso degli eufemismi e alla falsificazione, la persecuzione come trasgressione grossolana di una condotta magnanima e contenuta, è associata la prevedibile invettiva anticomunista che su questa rivista è in primo luogo declinata in chiave “antislava”. Il tema delle foibe e dei confini orientali è di nuovo rimarcato ed è la persecuzione razziale a chiarirne la gravità: «gli slavi si addimostrarono (…) nei nostri confronti (…) non meno duri, anzi più duri dei tedeschi stessi»: «se da un lato c’era l’internamento in Germania per chi non voleva saperne di collaborare, dall’altra stavano, generalmente, le foibe stesse»57. La comparazione si risolve in una sentenza che sgombra il campo da ogni dubbio: il confine orientale italiano è l’ultimo avamposto del mondo libero e gli italiani, come sempre, vittime.
Sulle pagine del «Borghese» lo sterminio degli ebrei è similmente utilizzato come argomento funzionale a corroborare la retorica anticomunista del periodico. La costruzione è sicuramente più raffinata rispetto agli altri due periodici, ma non meno aggressiva. Anche in questo caso è l’analogia lo strumento che consente di nominare lo sterminio degli ebrei, ma per dare sostanza al parallelismo tra nazismo e comunismo. Così i processi di Norimberga sono illegittimi, non solo perché non rispettano il principio giuridico del nulla poena sine lege58, ma perché consentono all’Unione Sovietica di sfuggire al giudizio59. Tra le fonti utilizzate per smontare il diritto di Norimberga compaiono citati Maurice Bardèche e Paul Rassinier60, dimostrando l’attenzione di questa rivista per il dibattito revisionista e antesignano del negazionismo e dunque, per quanto minoritario, dichiaratamente schierato. La rivista, rispetto alle altre, mostra anche una attenzione specifica per l’antisemitismo. È questo il terreno di una prima analogia tra nazismo e comunismo che si confermano analoghi non solo per le pratiche repressive nei confronti degli ebrei, ma anche dal punto di visto ideologico. L’Unione Sovietica mette in atto la «mobilitazione», ovvero la «deportazione in massa di ebrei dalla Russia occidentale alla Siberia». La mobilitazione, si legge, è la traduzione di deportazione: il primo «ha un suono più dolce» del secondo, «ma il significato è identico»61.
In un articolo del 1951, volto a sostenere la tesi del carattere imitativo del sistema concentrazionario nazista sul calco sovietico, Pietro Gerbore propone la posizione di Galtier- Boissière costruita a partire da Passage de la ligne di Paul Rassinier62. In un gioco di rimandi e di citazioni non esplicitate – Paul Rassinier non viene nominato, ma si citano indirettamente i suoi testi – Gerbore condivide con il direttore della rivista satirica Le Crapouillot la necessità di demistificare ogni tentativo delle vittime sopravvissute ai campi di concentramento di presentarsi con «l’aureola del santo o del martire». Gerbore prosegue nell’analisi di Jean Galtier-Boissière affermando che «dalle testimonianze» emerge come nei campi le maggiori «sofferenze» sarebbero «sovente» provenute dalla «“casta dei veterani della concentrazione”, per lo più antichi comunisti»63. Gerbore conferma questa interpretazione riportando il caso degli «italiani reduci da Auschwitz»64 i quali ricorderebbero «con particolare orrore lo zelo dei compagni polacchi». I campi nazisti, poi, altro non sarebbero che «la copia dei ‘campi di rieducazione’ in terra sovietica»65. L’analogia tra sistema concentrazionario nazista e sovietico è fondata su un nesso di derivazione che fa del primo «imitazione» del secondo, chiave di lettura sulla quale si mostreranno concordi esponenti di un certo tipo di revisionismo in tempi a noi più vicini. La rivista dà eco a questa profonda messa in discussione della Shoah e tende a inserirla, come accade esplicitamente in un altro articolo66, tra quegli «sperperi della natura» che caratterizzano la storia dell’umanità sin dalle sue origini. I massacri di popolazioni sarebbero quindi una costante indifferenziata dell’agire umano.
La Shoah e l’antisemitismo compaiono in scritti meramente propagandistici, l’obbiettivo è riabilitare la Germania per condannare ancor di più l’Unione Sovietica in un gioco a somma zero.
Un ultimo esempio di questa equivalenza è un lungo articolo di Paul Sérant pubblicato nel dicembre 1956. L’autore muove da alcune dichiarazioni di David Rousset, ex deportato a Buchenwald, e dà notizia del processo intentatogli dalla rivista comunista «Les Lettres françaises»67 «in nome dell’inesistenza dei campi sovietici»68. Lo scritto intende sostenere la validità dell’analogia tra comunismo e nazismo e costruisce la sua argomentazione istituendo una equivalenza tra realtà concentrazionaria sovietica e quella del Terzo Reich. Sérant giudica manchevole il comportamento di Rousset, perché non pronuncia quelle parole definitive sulla equivalenza dei campi che avrebbe potuto esprimere e che Sérant avrebbe voluto udire. Rousset, scrive Sérant, non può levare «definitivamente l’ipoteca che pesa sull’intelligenza di sinistra dopo la seconda guerra mondiale»: per fare questo dovrebbe «rinunciare a quella mitologia che un tempo ha condiviso coi comunisti». La questione prima, e al centro della polemica di Sérant contro Rousset, è toccata nel suo aspetto più generale: «Rousset non mette il totalitarismo nazista e quello comunista nel medesimo sacco»69.
Conclusioni
Gli argomenti proposti nei periodici esaminati offrono un esempio di quella «memoria selettiva» del fascismo, particolarmente diffusa su giornali, rotocalchi, letteratura di consumo dell’immediato secondo dopoguerra, secondo la quale il regime «riscattò il concetto di patria dall’infamia in cui l’avevano precipitato le sinistre filobolsceviche, fece marciare i treni in orario, bonificò le paludi Pontine, costruì città, istituì la previdenza sociale, conciliò Stato e Chiesa, trasformò un paese da operetta in una nazione temuta dalle grandi potenze». Al tempo stesso, del regime sono ignorati «il ruolo liberticida, il colonialismo, la persecuzione razziale, i crimini di guerra, il disastro provocato col secondo conflitto mondiale»70.
Si tratta di una narrazione del passato diffusa presso quella parte di opinione pubblica che ripartisce il proprio voto tra Movimento sociale italiano, monarchici e destra della Democrazia cristiana: anticomunisti, reazionari, ma non neofascisti71. È un’area minoritaria, ma non marginale, che resta scarsamente visibile fino alla fine degli anni Ottanta, mentre nei decenni seguenti i segni della crisi del paradigma antifascista diverranno evidenti nel discorso pubblico.
Gli anni della cosiddetta prima repubblica sono quelli in cui il paradigma antifascista riesce a mantenere la sua efficacia nella liturgia pubblica e a porsi come discriminante per l’accesso alla vita politica, per quanto conosca fasi di inabissamento e altri di risalita72. Non mancano momenti di attacco alla Resistenza e al paradigma antifascista, ma sono condotti all’interno di una battaglia culturale e non ancora politica73. Negli anni Ottanta in particolare la messa in discussione del paradigma antifascista agevola la circolazione di topoi che non solo ambiscono a mettere in discussione quella che con linguaggio sprezzante è definita la vulgata resistenziale, ma richiamano da vicino alcune forme discorsive e tesi avanzate anche sui periodici esaminati in questa sede74.
Il vero momento discriminante è però il passaggio dalla “prima” alla “seconda” repubblica e in particolare l’autunno del 1993, quando Silvio Berlusconi dichiara che, in occasione del ballottaggio per l’elezione del sindaco di Roma, se avesse potuto votare in quella città, avrebbe votato Gianfranco Fini, segretario del Msi, un partito nel quale il richiamo al fascismo è ancora un elemento costitutivo per l’identità di dirigenti e militanti75. Le elezioni saranno vinte dal candidato di centro sinistra Francesco Rutelli, ma è un segnale di apertura e legittimazione inediti. Alle elezioni politiche del marzo 1994 vince la coalizione trainata da Forza Italia e composta da Lega Nord e dal Msi, che prenderà il nome di Alleanza nazionale solo nel gennaio 1995. Proprio in quell’anno netto è il significato espresso da questa coalizione in merito al 25 aprile: è una festa antitotalitaria76. L’obiettivo è leggere il passato spostando il discrimine non più tra fascismo e antifascismo, ma tra totalitarismo e democrazia. L’attacco al paradigma antifascista sarà funzionale ad accreditare all’interno della Repubblica una «nuova destra, in larga misura estranea oppure ostile alla Liberazione, e che emerge con ampio consenso dopo il dissolvimento del vecchio equilibrio»77. Il dibattito sulle radici culturali di questa destra è ancora aperto e non è certo affrontabile nelle conclusioni di questo saggio. Tuttavia, l’impressione, eventualmente da approfondire con la ricerca, è che le destre italiane in età repubblicana facciano ricorso a strategie retoriche assai simili a quelle appena descritte: falsa analogia, attacco ad personam, despecificazione del nemico, paradigma vittimario, banalizzazione della violenza fascista.
Gli esempi di perdita di specificità del discorso storico sul fascismo sono numerosi e si può ricordare, ad esempio, che la legislazione istitutiva del Giorno della Memoria (legge 20 luglio 2000 n.211) non pronuncia il termine fascismo, così come il Giorno del Ricordo (legge 30 marzo 2004, n. 92) commemora le sofferenze degli italiani al confine orientale durante la Seconda guerra mondiale senza mai evocare la brutale occupazione dei Balcani da parte dell’Italia78. Inoltre, dagli interventi parlamentari degli esponenti di Forza Italia79 e di Alleanza Nazionale80 in merito all’istituzione delle due ricorrenze, emerge l’impiego dell’analogia come strumento retorico funzionale a costruire un discorso anticomunista. La Shoah non sembra essere l’emblema della violenza nazista, ma uno degli esempi della violenza totalitaria, secondo un topos già incontrato nei periodici esaminati. La memoria è luogo di contrattazione. Il ricordo di Auschwitz non può essere esclusivo e la sua compiutezza può raggiungersi solo istituendo una giornata, identica nelle forme, dedicata alle vittime del comunismo81. Nel contesto attuale di «tirannia memoriale»82 e, paradossalmente, di una «cultura politico-giuridica in generale incapace, o non desiderosa, di servirsi dell’apporto della cultura storiografica»83, i casi di dichiarazioni “indulgenti” nei confronti del fascismo e di Mussolini sono numerosi. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è dato dall’intervista del Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani (Forza Italia), concessa a una nota trasmissione radiofonica italiana: Mussolini «ha fatto delle cose positive» fino all’ingresso dell’Italia in guerra, con l’esclusione delle leggi razziali e del delitto Matteotti. La bontà del regime è commisurata alle infrastrutture realizzate: le strade, i ponti, gli impianti sportivi, le bonifiche. Accusato da più fronti per le dichiarazioni espresse, Tajani ha ribadito il suo essere «un antifascista convinto»84.
Il ricorso alle strategie narrative ricostruite nel saggio non è confinabile solo al campo della memoria pubblica. Anche nella modalità di intendere e presentare una delle questioni più importanti dell’attualità politica, ossia i fenomeni migratori e, con essi, l’esplosione di un razzismo dilagante, si può ipotizzare che vi sia una eco delle strategie narrative e della condivisione di quadri mentali presenti sulle riviste85. L’Italia è considerata vittima, di nuovo, e la difesa dei suoi cittadini deve essere prioritaria: noto è lo slogan «Prima gli italiani», giudicati defraudati dagli immigrati, il nemico interno sul quale pesa lo stigma della “razza”86, nell’accesso all’assistenza dello stato e nelle tutele che esso presta in loro favore, a tutto discapito dei cittadini nativi e bianchi87.
L’ipotesi qui avanzata è che in Italia il ricorso a uno specifico lessico politico non sia una novità, ma che semmai questo abbia rappresentato un bagaglio di immagini, formule, intenzioni che è già circolato e si è diffuso a partire da giornali e letteratura di consumo. Il dato inedito sembrerebbe piuttosto la partecipazione a queste pratiche discorsive non solo di quei giornalisti, polemisti o intellettuali che guardavano con non celata diffidenza alla democrazia nascente88, ma di attuali forze politiche maggioritarie e di figure istituzionali di una destra erede delle tradizioni culturali critiche della radice antifascista della democrazia italiana. Gli interrogativi, ancora da affrontare, riguardano la possibilità, la modalità e i tempi attraverso i quali un repertorio di interpretazioni e un formulario lessicale sulla storia del fascismo hanno circolato e conquistato aree dello spazio pubblico: riviste, intellettuali, parte di settori della storiografia, politiche della memoria, uomini delle istituzioni e partiti. Ad agire la lingua come «dispositivo di deresponsabilizzazione»89.
L’impressione quindi è che i due passaggi periodizzanti che l’Italia ha vissuto dopo il 1993 (l’implosione della repubblica dei partiti prima e la fine del bipolarismo imperfetto circa venti anni dopo) si possano caratterizzare oggi, anche alla luce del risultato delle elezioni del marzo 2018, per il grado di penetrazione di culture politiche chiaramente connotabili a destra, caratterizzate da una lettura del fascismo indulgente al punto da ritenerlo equiparabile all’antifascismo e degno di una memoria legittima quanto quella della Resistenza.
Notes
1
L’Uomo qualunque vende nell’autunno del 1945 800MILA, in Sandro Setta, L’Uomo qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari, 1975.
Candido vende centinaia di migliaia di copie sin dai primi sin dai primi mesi e tocca il suo record di vendite nel 1954 con oltre quattrocentomila copie. Si vedano: Roberto Chiarini, Guareschi, la destra e il mito della Resistenza, in Giuseppe Parlato (a cura di), Un «Candido» nell’Italia provvisoria. Giovannino Guareschi e l’Italia del «mondo piccolo», Fondazione Ugo Spirito, Roma, 2002, p. 59-106 e Mimmo Franzinelli, Bombardate Roma! Guareschi contro De Gasperi: uno scandalo della storia repubblicana, Mondadori, Milano, 2014.
Il Borghese, infine, vende nel 1951 tra le sei e le settemila copie; nel 1954 la tiratura tocca le 50 mila copie; cfr. Pietro Albonetti, Una linea per dieci testate. Appunti in margine ai giornali di Leo Longanesi, in Pietro Albonetti e Corrado Fanti (a cura di), Longanesi e Italiani e Raffaele Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo, politica e cultura negli anni Cinquanta, Marsilio, Venezia, 2002.
2
Claudio Pavone, Caratteri ed eredità della "zona grigia, in «Passato e Presente», XV, 43, 1998, p. 5-14;
Alberto Cavaglion, Attualità e inattualità della zona grigia, in Paolo Bernardini, Diego Lucci, Gadi Luzzatto Voghera (a cura di), Primo Levi, Project Proceedings. La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del Novecento e il loro ricordo, Cleup, Padova, 2006, p. 135-146;
Raffaele Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino, 2011;
Anna Bravo e Federico Cereja (a cura di), Intervista a Primo Levi ex deportato, Einaudi, Torino, 2011, p. 90.
3
Luca La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo. 1943-1948, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
4
Nella definizione di Roberto Beneduce, segnatura è «ciò che, istituendo similitudini e analogie, induce a riconoscere come somiglianti o affini esperienze e vicende che sono invece distinte», cfr. Roberto Beneduce, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 15.
5
Candido, «Candido», 26 ottobre 1947, n. 43. Secondo una autorappresentazione del fascismo come diga ecumenica eretta contro l’avvento dei Soviet, su questo: Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Utet, Torino, 2009, p. XI.
6
Identificare il fascismo, «L’Uomo qualunque», 2 maggio 1945, n. 11.
7
Mario Tedeschi, Le occasioni del Msi, «Il Borghese», 15 luglio 1952.
8
Guglielmo Peirce, Soldati verdi, «Il Borghese», 9 luglio 1954, n. 20.
9
Indro Montanelli nasce a Fucecchio, in provincia di Firenze, nel 1909. Da studente universitario aderisce al fascismo e ai Guf e inizia la sua carriera giornalistica collaborando con diverse testate del regime. Nel 1935, per un breve periodo, è in Etiopia come volontario e poi come giornalista. Dal 1935 comincia a pubblicare come autore di volumi. Dal 1938 scrive per «Il Corriere della Sera». Durante il conflitto continua la sua attività di giornalista come inviato di guerra. Fino alla caduta del fascismo non opera alcun distacco visibile e documentato dal regime. La spaccatura sembra registrarsi nel periodo intercorso tra la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8 settembre 1943, periodo durante il quale Montanelli scrive alcuni articoli antimussoliniani che lo costringono alla clandestinità. Arrestato nel febbraio del 1944, nell’estate riesce a fuggire in Svizzera da dove continua a pubblicare. Il suo rientro in Italia è del maggio 1945 ed immediato è il suo ritorno a «Il Corriere della Sera» al quale collabora anche durante la sua attività a «Il Borghese». Nel 1973 interrompe il suo lavoro al quotidiano milanese e dell’anno seguente è la fondazione del «Giornale nuovo», diretto fino al 1994. Ritorna a collaborare a «Il Corriere della Sera» nel 1995.
Muore a Milano nel 2001, a novantadue anni, si veda Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, Indro Montanelli, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 75, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 2011. Su Montanelli: Luca La Rovere, L’eredità del fascismo, Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo. 1943-1948, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 313-322; Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, Torino, 2006 e Sandro Gerbi Raffaele Liucci, Montanelli l’anarchico borghese. La seconda vita 1958-2001, Einaudi, Torino, 2009.
10
Antonio Siberia, Sulla via di Formosa. Lettera alla signora Luce, «Il Borghese», 9 luglio 1954, n. 20.
11
Specola, «L’Uomo Qualunque», 31 ottobre 1945, n. 37.
12
Le vespe, «L’Uomo qualunque», 13 novembre 1946, n. 36.
13
Che cos’è il totalitarismo, «L’Uomo qualunque», 23 novembre 1949, n. 47.
14
Gli ex delitti dell’on. Sereni, «Candido», 26 giugno 1955, n. 55.
Emilio Sereni nasce in una famiglia ebraica nel 1907 a Roma dove, sin da giovane, frequenta gli ambienti antifascisti. A vent’anni si laurea in agraria. Trasferitosi a Napoli, fonda nella città una cellula comunista clandestina. A causa di una delazione viene arrestato e condannato dal Tribunale Speciale fascista al confino per quindici anni, trascorsi cinque dei quali viene liberato per amnistia. Si trasferisce con la moglie Xenia Silberberg in Francia dove continua a collaborare con il Partito comunista e inizia a scrivere per «Lo stato operaio». Sottoposto a interrogatori perché accusato di trockijsmo e di avere contatti con i centri controrivoluzionari russi esuli a Parigi, è condannato a morte dallo stalinismo. Salvatosi grazie a una lettera di autocritica inviata a Stalin, è estromesso dall’apparato dirigente del partito. A Tolosa, nel 1940, riesce a prendere contatti con il partito e scrive sul giornale di propaganda antifascista «La parola del soldato». È catturato dai carabinieri il 17 giugno 1943 e condannato a diciotto anni di carcere. Liberato nel 1944, si trasferisce a Milano dove continua l’attività clandestina e occupa ruoli di spicco nel Pci. Dopo la Liberazione è presidente del Cln della Lombardia e poi commissario del ministero degli Interni per l’Alta Italia. È eletto nel Comitato Centrale del Pci. Deputato alla Costituente, è ministro nel secondo e nel terzo governo De Gasperi, dopo il 1947 si occupa del lavoro di partito e dal 1955 è deputato. Riveste l’incarico di parlamentare fino al 1972. Esperto di storia agraria, ha dedicato al tema diversi volumi. Muore a Roma nel 1977, cfr. Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza. Volume II: Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino, 2001, pp. 642-643.
15
Giovanni Ansaldo, Il caso Togliatti, «Il Borghese», 29 giugno 1956, n. 26.
16
Guglielmo Peirce, Le misure del vestito, «Il Borghese», 6 agosto 1954, n. 24.
17
Si veda su questo: Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011.
18
G.A., De Profundis, «Il Borghese», 15 dicembre 1950, n. 19.
19
Mario Tedeschi, Reati e grazia, «Il Borghese», 3 dicembre 1954, n. 41.
20
Guglielmo Peirce, Un funerale, «Il Borghese», 24 febbraio 1956, n. 8.
21
Mimmo Franzinelli, Delatori, spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano, 2002, p. 130-133.
22
Furore politico, «Candido», 10 giugno 1951, n. 23.
23
Cecilia Nubola, Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 131-135 e p. 206.
24
Nella strage di Bergiola Foscalina morirono 72 persone, tra le quali 26 bambini. Cecilia Nubola, Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 206.
25
Furore politico, «Candido», 10 giugno 1951, n. 23.
26
Il Movimento Sociale Italiano fu fondato nel dicembre 1946. Raccoglieva al suo interno reduci della Repubblica Sociale di Salò ed ebbe come primo segretario Giorgio Almirante, politico fascista che durante la Repubblica Sociale aveva ricoperto l’incarico di capo di gabinetto al Ministero della Cultura Popolare. Sul Movimento Sociale Italiano: Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2006; Piero Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale, Il Mulino, Bologna, 1998 (prima ed. 1989).
27
Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 64.
28
Giro d’Italia. Notiziario liberatori, «Candido», 19 ottobre 1946, n. 42.
29
Le foibe sono «inghiottitoi naturali tipici delle aree carsiche» della Venezia Giulia. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nel secondo dopoguerra vennero utilizzate per «liberarsi dei corpi di numerosi caduti, e (…) per occultare le vittime delle ondate di violenza di massa scatenate a due riprese – nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 – da parte del movimento di liberazione sloveno e croato e delle autorità del nuovo Stato jugoslavo creato da Tito». Raoul Pupo riporta il numero di «600-700 vittime per il 1943» e prevalentemente in Istria e di «più di 10000 arrestati – in massima parte, ma non esclusivamente italiani -, alcune migliaia dei quali non fecero ritorno, nel 1945». Questa seconda ondata aveva come epicentri «Trieste, Gorizia e Fiume, anche se pure nella penisola istriana si registrarono altre uccisioni». In queste cavità vennero gettate anche persone ancora in vita. Cfr. Raoul Pupo, Foibe, in A.A. V.V., Dall’impero austroungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 183-194.
30
A e B, Noi e voi, «Candido», 5 gennaio 1946, n. 1; Il Forbiciastro, Giro d’Italia, 1 giugno 1946, n. 22. Ancora nel 1948 si danno notizie di ritrovamenti di arsenali nascosti: Giro d’Italia, Placido Don, «Candido», 8 febbraio 1948, n.6 e Giro d’Italia, Mitra e annesse divise, «Candido», 15 febbraio 1948, n. 7.
31
Accanto al titolo, «Candido» 26 ottobre 1946, n. 43. Accanto al titolo, «Candido»,13 giugno 1948, n. 24; Guareschi, Notizie, «Candido», 20 giugno 1948, n. 25; Giro d’Italia, «Candido», 25 luglio 1948, n. 29-30. Giro d’Italia, «Candido», 8 agosto 1948, n. 32.
Questo scritto è relativo all’indagine di Carlo Simiani apparsa sul «Corriere Lombardo». Ancora Giro d’Italia, «Candido», 22 maggio 1949, n.21. Guareschi, Uno, nessuno, trecentomila, «Candido», dicembre 1949, n.49. Guareschi, Facciamo la prova del nove, «Candido», 6 luglio 1952, n. 27; in questo articolo si accusa Scelba di aumentare il numero degli uccisi per mano fascista, «attribuendo ai fascisti stragi orrende, come quella di Marzabotto, dovute esclusivamente alle SS tedesche»; e ancora, Giovanni Usagotta, Quanti sono i 1732 eliminati? , «Candido», 13 luglio 1952, n. 28; e con lo stesso titolo, 20 luglio 1952, n. 29.
32
Guareschi, Un libro del vicedirettore de “L’Unità”. Ulisse scrittore imperiale, «Candido», 25 gennaio 1948, n. 4. Su Davide Lajolo è anche lo scritto Guareschi, Mario perché?, «Candido», 5 giugno 1949, n. 23.
Davide Lajolo nasce nei pressi di Asti nel 1912. Fascista, legionario in Spagna, soldato del Regio Esercito, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 entra tra le fila della Resistenza a guida di due divisioni partigiane garibaldine. Dopo la Liberazione, lavora al quotidiano «L’Unità». È deputato per il Partito comunista italiano a partire dal 1958, cfr. Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza. Volume II: Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino, 2001, p. 565.
33
Giro d’Italia, «Candido», 23 dicembre 1951, n. 51; Giro d’Italia, «Candido» 31 dicembre 1951, n. 52. Moranino è al centro di una lunga inchiesta condotta su due numeri: I Misteri del Pci. Le accuse contro l’on. Moranino, «Candido», 27 settembre 1953, n. 39 e Le accuse contro l’on. Moranino, «Candido», 4 ottobre 1953, n. 40; Il Giro d’Italia, «Candido», 5 dicembre 1954, n. 49. Il Giro d’Italia, «Candido», 5 dicembre 1954, n. 49; Pane al pane, «Candido», 16 gennaio 1955, n. 3; Giro d’Italia, «Candido», 22 aprile 1956, n. 17.
La settimana successiva, sulla copertina di «Candido» si legge: «Francesco Moranino condannato all’ergastolo. Riconosciuto il movente politico per l’uccisione dei cinque partigiani. Delitto comune la fucilazione delle due donne. La pena è stata ridotta per l’indulto a dieci anni» («Candido», 29 aprile 1956, n. 18). Francesco Moranino nasce nei pressi di Vercelli nel 1920. Nel 1941 è condannato al confino per la sua militanza comunista. Dopo l’armistizio partecipa alla Resistenza, combattendo nelle brigate Garibaldi. Nel dopoguerra è eletto all’Assemblea costituente, sottosegretario alla Difesa dal febbraio al maggio 1947, eletto in Parlamento nel 1948. Nel 1951 ripara in Cecoslovacchia perché accusato in merito all’uccisione di cinque persone, sospettate di essere spie, durante la guerra partigiana. Nel 1953, rieletto tra le file del Pci, può tornare in Italia godendo dell’immunità parlamentare. Nel 1956 viene tuttavia processato e condannato all’ergastolo. Tornato in Cecoslovacchia, rientrerà in Italia solo dopo che gli omicidi nei quali era coinvolto furono giudicati come “atti di guerra”. Nel 1968 viene eletto senatore nel collegio di Vercelli. Muore tre anni dopo. Cfr. Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza. Volume II: Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino, 2001, p. 592.
34
Si veda ad esempio Pane al Pane. Ortona come Moranino, «Candido», 1 luglio 1956, n. 27.
Silvio Ortona nasce nel 1916 a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, la sua carriera nell’esercito è interrotta e nel 1941 inizia la sua militanza nel Partito comunista. Dopo l’armistizio combatte nella Resistenza. Nel dopoguerra continua la militanza in seno al Pci, è eletto deputato nella prima e nella seconda legislatura e fa parte della Cgil. Muore nel 2005. Si veda il quadro biografico a lui dedicato sul sito dell’Anpi: http://www.anpi.it/donne-e-uomini/287/silvio-ortona e Silvio Ortona, A noi toccò in sorte quel tempo, in Eugenio Gentili Tedeschi, I giochi della paura. Immagini di una microstoria: libri segreti, cronache, resistenza tra Milano e Valle D’aosta: 1943-1944, Le Chateau Edizioni, Aosta, 1999.
35
Ad esempio: il disegno “Schiavo d’amore” in cui sono ritratti Nilde Iotti e Palmiro Togliatti, «Candido», 22 luglio 1951, n. 29; la vignetta “Obbedienza cieca pronta assoluta”, «Candido» 8 giugno 1952, n. 23 e la vignetta “Nozze comuniste", «Candido», 7 dicembre 1952, n. 49.
36
Franco Pagliano, I vittoriosi dell’Italia sconfitta, Vita e morte di un soldato, «Candido», 15 maggio 1955, n. 20 dedicato a Adriano Visconti e Franco Pagliano, I vittoriosi dell’Italia sconfitta. Addosso alle panzone, «Candido», 24 luglio 1955, n. 30 su Carlo Faggioni.
37
Mosca, L’abbraccio liberal comunista, «Candido», 30 aprile 1950, n. 8.
38
Il Granista, L’ammasso delle grane, Grana n. 58, «Candido», 15 marzo 1953, n. 11.
39
I Misteri del Pci, «Candido», 29 marzo 1953, n.13.
40
Giovanni Usagotta, Quanti sono i 1732 eliminati?, «Candido», 13 luglio 1952, n. 28.
41
Il 25 aprile 1945 ebbe avvio l’insurrezione generale dei partigiani contro i fascisti e i nazisti. La data entrò ufficialmente nel calendario repubblicano delle festività e degli anniversari da celebrare con la legge 27 maggio 1949 n. 260.
42
Muzj, Festa Nazionale?, «L’Uomo qualunque», 2 maggio 1951, n. 18.
43
Piero Operti, Lettera aperta al Presidente della Repubblica, «Candido», 24 aprile 1955, n. 17.
44
Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Il Mulino, Bologna, 2007.
45
A e B, Noi per voi, 25 gennaio 1948, n. 4.
46
Manlio Barilli, Italia perduta. Fiume, «Candido», 18 gennaio 1953, n. 3.
47
Alfred Boensch, L’interprete di Hitler, «Il Borghese», 4 giugno 1954, n. 15.
48
David Bidussa, La politica della memoria in Italia. Appunti sulla storia e la pratica del Giorno della memoria, in Università degli studi di Tor Vergata, Facoltà di lettere e filosofia, Annali del dipartimento di storia. 3/2007. La politica della memoria in Italia, Viella Roma, 2007, p. 101. Bidussa cita Giovanni Levi, Sempre caro ci fu questo passato, in «Diario della settimana», VI/4, pp, 82-86, p. 82.
49
Ultime incomprensioni, «L’uomo Qualunque», 23 ottobre 1946, n. 43.
50
Cfr. Le Vespe, Senso di ingiustizia per i trattati di pace, «L’Uomo Qualunque», 19 marzo 1947, n.12.
51
Guglielmo Giannini, L’Italia non è colpevole della guerra e non deve umiliarsi di fronte allo straniero, «L’Uomo Qualunque», 6 agosto 1947, n. 32.
52
Cfr. Guglielmo Giannini, L’Italia non è colpevole della guerra e non deve umiliarsi di fronte allo straniero, «L’Uomo Qualunque», 6 agosto 1947, n. 32.
53
Civiltà e barbarie, «L’Uomo qualunque», 5 settembre 1947, n. 37.
54
Il regime comunista ha adottato i metodi di Hitler. Il Cremlino e gli ebrei nell’Unione Sovietica, «L’Uomo qualunque», 25 marzo 1953, n. 12.
55
Enzo Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Mondadori, Milano, 2002, p. 113-115. Il riferimento principale è a Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, Cambridge, 1956.
56
Teodoro Morgani, Ebrei di Fiume e di Abbazia (1441-1945), Carucci, Roma, 1979; Picciotto Fargion, Il Libro della memoria, Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano, 1992, p. 29; Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, p.188-189.
57
Manlio Barilli, Italia perduta. Fiume, «Candido», 18 gennaio 1953, n. 3.
58
Alfred Boensch, L’aggressione indefinibile, «Il Borghese», 1 ottobre 1951, n. 19.
59
Otto Matzke, L’esempio di Manstein, «Il Borghese», 15 novembre 1950, n.17; O. M., Il punto di vista della difesa, «Il Borghese», 1 ottobre 1951, n. 19.
60
In P.G., Norimberga in appello, «Il Borghese», 15 aprile 1951, n. 8. Bardèche è nominato inoltre in O. M., Il punto di vista della difesa, «Il Borghese», 1 ottobre 1951, n. 19.
61
Peter Viereck, L’antisemitismo in Russia, «Il Borghese», 15 aprile 1950, n. 3.
62
Pietro Gerbore, Il mito dell’atrocità, «Il Borghese», 15 aprile 1951, n. 8.
63
Pietro Gerbore, Il mito dell’atrocità, «Il Borghese», 15 aprile 1951, n. 8.
64
È l’unico luogo della rivista in cui si fa cenno alla presenza di italiani ad Auschwitz.
65
Pietro Gerbore, Il mito dell’atrocità, «Il Borghese», 15 aprile 1951, n. 8.
66
Pietro Gerbore, Sperperi della natura, «Il Borghese», 15 maggio 1951, n. 10.
67
Marcello Flores, L’età del sospetto. I processi politici della guerra fredda, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 198-204; Ivan Čistjakov, Diario di un guardiano del Gulag, prefazione di Marcello Flores, Mondadori, Milano, 2012; Tony Judt, Past imperfect. French intellectuals 1944-1956, University of California press, Berkely, Los Angeles, Oxford, 1992.
68
Enzo Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Mondadori, Milano, 2002, p. 84.
69
Paul Sérant, Guardare a sinistra, «Il Borghese», 14 dicembre 1956, n. 50.
70
Mimmo Franzinelli, Mussolini revisionato e pronto per l’uso, in Angelo Del Boca (a cura di) La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza, 2009, p. 203-235, per la cit. p. 205.
71
Nonostante il Movimento sociale italiano nasca riunendo le varie organizzazioni neofasciste che sorgono in corrispondenza del crollo del regime, l’elettorato del partito non ha una connotazione ideologica tale da identificarlo come omogeneamente neofascista. Si vedano: Piero Ignazi, Il Polo Escluso, Profilo del Movimento Sociale, Il Mulino, Bologna, 1998 (prima ed. 1989); Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2006; Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Rizzoli, Milano, 1995; Francesco Germinario, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
72
Per una rassegna puntuale sulle varie fasi di affermazione, rilancio e crisi del discorso antifascista, Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005.
73
Si veda Tommaso Baris in Crisi del paradigma antifascista e retoriche politiche delle nuove destre, in Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli, Paolo Pombeni (a cura di) L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, Carocci, Roma, 2014, p. 437-456.
74
Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005.
75
Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2006; Gregorio Sorgonà, La scoperta della destra. Il Movimento Sociale Italiano e gli Stati Uniti, Viella, Roma, 2019.
76
Filippo Focardi cita l’intervista a Gianfranco Fini il 25 aprile 1994 al «Corriere della Sera», in Filippo Focardi, La Guerra della memoria, La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005. p. 63.
77
Gianpasquale Santomassimo, La Resistenza incompiuta: il lungo addio, «il manifesto», 26 aprile 2015.
78
Legge 30 marzo 2004, n. 92: "Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati".
79
Resoconto stenografico dell’assemblea, seduta n. 703 del 28 marzo 2000, p. 17-18.
80
Resoconto stenografico dell’assemblea, seduta n. 703 del 28 marzo 2000, p. 23-24.
81
Sui diversi impieghi e sull’ambiguità di questa categoria, Enzo Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Mondadori, Milano, 2002, p. 159-187.
82
Esther Benbassa, La sofferenza come identità, Ombre corte, Verona, 2009, p. 176.
83
Gabriele Turi, Lotta all’antisemitismo: cultura storica e azione politica, in «Passato e presente», n. 104, maggio agosto 2018, p. 18.
84
Franco Stefanoni, «Cose positive da Mussolini», Tajani si scusa: «Non intendevo banalizzare la pagina più buia della storia», «Corriere della Sera», 14 marzo 2019.
85
Nel contesto dell’Italia governata dalla coalizione Movimento 5 stelle e Lega (il richiamo geografico al Nord Italia è venuto meno) sono stati documentati 68 episodi di violenza fisica a danno di migranti e stranieri, esclusivamente quelli calcolabili a partire da dati ufficiali, e occorsi tra l’aprile e il settembre 2018. Per questi dati: il dossier curato da Lunaria, “Un’estate all’insegna del razzismo” n.6/2018, consultabile al sito www.cronachediordinariorazzismo.org. Del dicembre 2018 è l’appello firmato da cento esponenti dell’ebraismo italiano con il quale si chiede a Salvini la condanna dell’antisemitismo, degli atti aggressivi contro rom e sinti e del razzismo contro stranieri e migranti. Salvini in Israele, lettera aperta di ebrei italiani: “condanni l’antisemitismo”. Un caso l’incontro mancato con Rivlin, «La Repubblica», 9 dicembre 2018.
86
Alberto Burgio, Nonostante Auschwitz. Il «ritorno» del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma, 2010, p. 178-210.
87
Sul vittimismo dell’Italia: Gad Lerner, Le leggi razziali di ieri e il razzismo di oggi, Gli Asini, n. 57, novembre 2018, p. 13-18.
88
Luca La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo. 1943-1948, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
89
Alberto Burgio, Nonostante Auschwitz. Il «ritorno» del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma, 2010, p. 135.