La Marcia su Roma cent’anni dopo
Professoressa ordinaria

(Università di Lubiana - Dipartimento di Storia)

Professore associato

(Università di Napoli “L’Orientale” - Dipartimento di Scienze Umane e Sociali)

Professoressa associata

(Università di Verona - Dipartimento di Culture e Civiltà)

Interviste a Gianpasquale Santomassimo, Marta Verginella, Matteo Pretelli

Tato [Guglielmo Sansoni], La Marcia su Roma, cartolina postale, s. d., 1927

Tato [Guglielmo Sansoni], La Marcia su Roma, cartolina postale, s. d., 1927.

Premessa

Questo mini-dossier raccoglie tre interviste a storici di professione che lavorano su spazi diversi: Italia, Slovenia e Stati Uniti. La scelta è stata guidata dalla volontà di unire prospettive provenienti da contesti molto differenti, per pensare non solo all’avvenimento in sé, ma anche alla sua ricezione. Come si vedevano, o non si vedevano, la Marcia su Roma e lo stesso fascismo fuori d’Italia?

Troppo spesso si dimentica che, come ha acutamente fatto notare un secolo fa Walter Lippmann, nel mondo contemporaneo l’esperienza dei soggetti è stata sostituita dalla sua rappresentazione. È attraverso le immagini trasmesse dai media che le persone vengono informate (o credono di venire informate) di quanto è accaduto in altri luoghi; e coloro che non consumano i giornali (alimentati a propria volta dalle agenzie di stampa internazionali), poiché non li leggono, e non hanno canali informativi alternativi, come lettere di amici o parenti, semplicemente ignorano l’evento.

Così, mentre da un lato Verginella segnala che in Slovenia la stampa pressoché ignorò l’evento, Pretelli sottolinea che a costruire un’immagine positiva del primo fascismo negli Stati Uniti contribuì molto la corrispondente a Roma del “New York Times”, secondo la quale il fascismo rappresentava il meglio della gioventù italiana e Mussolini, visto come un tutt’uno con il fascismo stesso, incarnava le virtù pratiche dell’uomo americano: per i lettori del giornale quello era il fascismo, non i fatti che produceva quotidianamente.

Se questo era lo scopo del dossier, il motivo per cui è stato scelto l’anniversario della Marcia su Roma va ricercato anche nell’interesse della rivista per il fenomeno del fascismo, al quale ha già dedicato tre anni fa un numero monografico, “Échos du fascisme?”. D’altra parte, le commemorazioni e soprattutto i centenari (ma non solo) incoraggiano le revisioni di eventi storici ritenuti ancora attuali da una parte dei contemporanei. La Marcia su Roma organizzata dai fascisti italiani ne è un ottimo esempio. Certo, ogni nuova revisione avviene in un luogo e in un momento, che invitano a evidenziare alcuni aspetti rispetto ad altri, ad attenuarne o viceversa accentuarne l’importanza, e ha dietro di sé uno strato di letture precedenti con cui dialoga, ma da cui cerca anche di prendere le distanze per proporre, se possibile, una nuova prospettiva. Come sottolinea Santomassimo, oggi è difficile ignorare l’importanza della Marcia su Roma, come fecero molti suoi contemporanei, o pensarla in termini di farsa, come si fece dopo il 1945. Spesso questo nuovo sguardo presuppone nuove analogie, che non vengono nei fatti esplicitate, poiché il presente illumina il passato almeno quanto il passato illumina il presente.

E nel nostro presente, gli interrogativi sulle origini del fascismo e il suo approdo negli apparati statali riecheggiano avvenimenti recenti, come nota Matteo Pretelli, quali l’invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump, o quella del Planalto di Brasilia da parte dei seguaci di Jair Bolsonaro. Lo stesso Pretelli richiama peraltro giustamente l’attenzione sulle differenze: tra queste, l’assenza in entrambi questi casi di un’organizzazione che inquadrasse i manifestanti e li guidasse verso un obiettivo chiaro. In tal senso, essi ricordano più gli hooligan (per non parlare della folla di leboniana memoria) che le formazioni militarizzate del fascismo e di altri movimenti simili tra le due guerre. Lo scienziato sociale lo comprova riflettendo sulla forza delle articolazioni sociali e delle formazioni politiche all’inizio del XX secolo, o all’inizio del XXI secolo.

Ma non tutti prestano attenzione a questa o ad altre questioni. Lo storico ricorda l’impossibilità del ceteris paribus, altri che non lo sono, o lo sono solo formalmente (come chi considera il fascismo un fenomeno universale o eterno), possono lasciarsi rapidamente trasportare dalle analogie. “False analogie”, afferma Santomassimo, che individua un decisivo fattore di differenziazione: le forme di violenza di allora e di oggi, per nulla paragonabili. L’esistenza di una cultura della violenza all’epoca della Marcia su Roma, che la Prima guerra mondiale aveva esacerbato, come ricordato già a suo tempo da Mosse1, contrasta con la situazione attuale, in cui la pratica della violenza è appannaggio di gruppi fortemente minoritari, che, sebbene organizzati in modo rudimentale e capaci di azioni criminali, non sembrano avere un progetto di potere coerente, né un chiaro nemico di fronte. E a tale proposito, una delle cose che oggi più mancano, segno dei tempi, è il ruolo del “biennio rosso” nella costruzione di quella “grande paura” (qui ancora Santomassimo) nei ceti possidenti che tanto peso ebbe nell’indurli in Italia a facilitare l’accesso al governo del fascismo. E che il clima prodotto dal “biennio rosso” fosse un fattore importante lo dimostra l’osservazione di Pretelli sul “disagio” che sollevò tra gli italiani a New York.

Qui però non c’è uniformità: nella vicina Slovenia, osserva Marta Verginella, le cose sembrano essere andate diversamente, prevaleva l’ignoranza verso l’esistenza di un processo identificabile nel fascismo, così come la relativa indifferenza o l’ignoranza dell’Italia da parte di un’élite orientata verso la Mitteleuropa e molto meno esperta nelle questioni italiane (situazione che perdura anche oggi, secondo l’autrice).

In ogni caso, pochi dall’esterno avevano ben chiaro in cosa consistesse il fascismo e questo valeva per gli italiani negli Stati Uniti, o per gli sloveni, secondo Pretelli e Verginella. Tuttavia, la stessa Verginella richiama l’attenzione sulla necessità di evitare generalizzazioni che considerino le realtà degli Stati nazionali come entità analiticamente omogenee e certamente la presenza di mezzo milione di sloveni e croati entro i confini italiani dopo il 1918 dovrebbe costituire un elemento di differenziazione. D’altra parte, nel caso di Trieste, dove il fascismo aveva commesso ogni sorta di atrocità prima della Marcia su Roma, si dava il paradosso della persistenza di quella memoria con una possibilità di dialogo istituzionale.

In ogni caso, la Marcia su Roma solleva un altro interrogativo, sul ruolo dell’evento, e questo apre questioni storiografiche non nuove sul peso di “strutture” o di snodi di lungo o medio periodo, che a propria volta rimandano al problema della periodizzazione in cui il fenomeno dovrebbe essere studiato. In parole povere, la Marcia su Roma va pensata in sé o, al contrario, va vista come un episodio, rilevante sì, ma non decisivo in una traiettoria che era già stata tracciata, come una strada pavimentata da una sequenza di eventi e percorsa da determinati attori sociali, o se si vuole da élite con determinati progetti nel contesto di una debolezza critica delle istituzioni liberali e dei loro vertici?

Tutto ciò conduce alla vexata quaestio della continuità o meno tra l’Italia liberale e l’Italia fascista, problema sul quale, a proposito dei rapporti tra i miti e le loro rappresentazioni estetiche, l’articolo di Lotti, inserito in questo numero, propende verso la tesi della continuità, confrontando la rappresentazione filmica di due eventi: la Marcia su Roma, e la cerimonia del trasferimento a Roma della salma del Milite Ignoto che la precede temporalmente. Tuttavia, ovviamente una continuità estetica non implica necessariamente una continuità su altri piani della realtà storica.

Se torniamo alla Marcia su Roma, si è sostenuto che l’approdo al governo dei fascisti sarebbe avvenuto prevedibilmente anche senza la Marcia su Roma, ma certo le condizioni sarebbero state ben diverse, per cui la Marcia è apparsa come lo strumento per forzare una soluzione che indirizzava quell’approdo verso un obiettivo molto più ambizioso, come era il crollo dell’ordine costituzionale. Che ciò sia stato ottenuto con la complice cecità di tanti allora tenaci antifascisti, compresa in primis la sinistra, non deve stupire. Gli storici presumono di essere chiaroveggenti ex post: sicuramente lo sarebbero stati meno quando la storia era in divenire, cioè quando il futuro era futuro e quindi poco prevedibile.

Tuttavia, su questo punto, Santomassimo, in linea con una storiografia che ha abbandonato l’idea di necessità, suggerisce che sebbene tutti gli ingredienti essenziali fossero già presenti nell’Italia liberale, ciò non implicava che lo sbocco sarebbe stato inevitabilmente il fascismo. Serviva un catalizzatore, anche se ci si potrebbe chiedere se esso poteva essere un nuovo movimento come quello fascista, o un momento come la Marcia su Roma. Nei fatti, la crisi delle istituzioni liberali si coagulò con l’emergere di un movimento politico eversivo, con un progetto di presa del potere. E se torniamo all’analogia come a un modo per pensare un problema, non come a un modo di risolverlo, si potrebbe ben dire che anche oggi c’è una crisi delle istituzioni liberali e delle strutture sovrannazionali, ma non c’è un movimento con pulsioni simili al fascismo, e sembra del tutto evidente che le leadership emergenti non hanno molto in comune con quelle del primo dopoguerra.

E per il resto, dov’è il nemico: gli immigrati? Possono essere considerati essi un sostituto della classe operaia? In tal senso, forse il contesto che più richiama alla memoria un netto conflitto con i tratti della frattura sociale è quello del Brasile, mentre non può ritenersi tale il caso italiano, con una sinistra sempre più identificata con le “zone a traffico limitato”, i centri storici delle città chiusi al traffico automobilistico che la votano.

Giunti a questo punto, la parola va agli intervistati, che aprono nelle loro risposte molti altri problemi che qui non sono stati affrontati. Tutti alludono a un movimento politico e a un fenomeno che, pur non essendo affatto un modello esemplare, fa riflettere sulla fragilità dei sistemi politici e sulla forza dirompente di certi eventi che si inseriscono nelle fessure aperte del consenso culturale e dell’inerzia sociale. L’ordine delle interviste muove dal centro verso l’esterno: Santomassimo sull’Italia; Verginella sulla Slovenia; Pretelli sugli Stati Uniti.

Roma – Mostra della Rivoluzione fascista in via Nazionale, cartolina postale, s. d., 1932.

Roma – Mostra della Rivoluzione fascista in via Nazionale, cartolina postale, s. d., 1932.

Intervista a Gianpasquale Santomassimo

Allievo di Ernesto Ragionieri, Gianpasquale Santomassimo ha insegnato, dal 1976 al 1987, presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Trieste, e poi, dal 1987 al 2014, presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Siena. Ha fatto parte della direzione delle riviste “Italia contemporanea” e “Passato e presente”. Collabora stabilmente con “il manifesto”. È autore tra gli altri dei volumi La marcia su Roma (Firenze, Giunti, 2000); Antifascismo e dintorni (Roma, Manifestolibri, 2004); La terza via fascista. Il mito del corporativismo (Roma, Carocci, 2006); Togliatti il rivoluzionario costituente (con Paolo Ciofi e Gianni Ferrara, Roma, Editori riuniti, 2014).

Federica Bertagna – Siamo abituati a distinguere tra il punto di vista dei contemporanei e quello degli storici, emic ed etic, nei termini di Kenneth L. Pike. Potrebbe presentarci le principali interpretazioni della Marcia su Roma date dai primi e dai secondi? Ci sono dei punti di contatto?

 

Gianpasquale Santomassimo – Si tende a dimenticare che le reazioni alla Marcia su Roma furono generalmente positive. La stampa italiana approvò la soluzione della crisi (con la parziale eccezione di Luigi Salvatorelli su “La Stampa” di Torino) lodando la saggezza del sovrano che aveva affidato il governo a Mussolini. Ancora più entusiasta la stampa internazionale, che assunse in pieno la retorica dei fascisti, raffigurando il fascismo come un movimento di patrioti che aveva impedito la rivoluzione bolscevica. È parte di un idillio tra l’opinione pubblica occidentale e il fascismo italiano che durò fino al 1935.

Da parte degli oppositori vi fu un’incredibile sottovalutazione della portata dell’evento. Significativa era la definizione della Marcia su Roma come di “una crisi ministeriale un po’ movimentata” data da Umberto Terracini (Le coup de force du Fascio, “La Correspondence Internationale”, 11 novembre 1922). Un comunicato della CGIL invitava gli operai a non farsi coinvolgere nella contesa fra due fazioni della borghesia, guardando fiduciosi all’immancabile avvenire. Prevaleva la convinzione che un governo borghese valesse l’altro. L’eccezione più cospicua è rappresentata da Giacomo Matteotti, l’unico che avesse per tempo compreso la pericolosità del fascismo e ne avesse documentato la violenza capillare e diffusa. Matteotti sarà anche l’unico, nel 1923, a segnalare il putsch fallito di Hitler a Monaco e ad ammonire sulla capacità del fascismo di divenire modello per le classi dirigenti europee.

Quanto alle interpretazioni successive al 1945 c’è da dire che a lungo raffigurarono la Marcia su Roma in termini riduttivi, come semplice scampagnata, farsa, burletta, gioco delle parti. In linea con una sottovalutazione del fascismo e della sua presa sulla società italiana che rispondeva anche a un’esigenza autoconsolatoria del nuovo assetto democratico e repubblicano. Solo in tempi relativamente recenti si è compreso che l’elemento determinante non fu la marcia in sé ma l’insurrezione fascista nelle città, con la sequela di complicità, di viltà, di collusioni da parte delle autorità che ne segnarono l’esito.

Federica Bertagna – La storiografia si confronta continuamente con la questione del ruolo che il singolo avvenimento ha nel corso della storia. Nel caso della Marcia su Roma, lei quale relazione vede tra l’evento-marcia e la sequenza più ampia di problemi in cui essa era iscritta? La contingenza ebbe un peso, oppure no? Detto altrimenti, c’era la possibilità di bloccare la marcia?

 

Gianpasquale Santomassimo – La Marcia su Roma, di fatto, era stata già bloccata mentre era in vigore ufficiosamente lo stato d’assedio disposto dal governo. La decisione del Re di non firmare il decreto cambiò radicalmente la situazione, fino al conferimento dell’incarico a Mussolini, che rappresentò una vera e propria capitolazione.

Va ricordato che da parte di tutte le forze governative era stata espressa la propensione ad “associare” il fascismo nel governo. Ma era proprio quello che Mussolini voleva evitare, andando invece al potere da posizioni di forza, nella consapevolezza che ormai, sbaragliati nelle piazze tutti gli avversari, la “grande paura” della borghesia era destinata a estinguersi lentamente e di conseguenza le fortune del fascismo erano destinate a declinare.

Indubbiamente l’ascesa del fascismo si inscriveva in una situazione di crisi delle istituzioni liberali e di perdita diffusa di fiducia delle masse nel meccanismo della democrazia parlamentare, ritenuta troppo debole per difendere le classi popolari dall’offensiva reazionaria e, al tempo stesso, non in grado di difendere la borghesia dalla minaccia “bolscevica”: uno scenario non solo italiano, come è noto. Ma in Italia era l’atteggiamento delle classi dirigenti e dei centri di potere a risultare decisivo, rifiutando qualsiasi prospettiva di compromesso sociale che avrebbe potuto comportare la rinuncia a privilegi acquisiti e tenacemente difesi.

Nel fascismo inoltre confluivano propensioni reazionarie e antiparlamentari che avevano una storia pregressa, antecedente alla Prima guerra mondiale, ma che ora trovavano nel fascismo un elemento catalizzatore adeguato alla dimensione di massa che la politica aveva assunto in maniera irreversibile. Come ebbe a scrivere Giulio Bollati “Nulla è nel fascismo quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella politica italiana, tranne il fascismo stesso”. Vale a dire che erano già presenti nella situazione italiana tutti gli elementi che sarebbero confluiti nel fascismo, ma che era decisiva la nascita, appunto, di un catalizzatore che li aggregasse e li fondesse, in una situazione particolarissima. Non era, comunque, lo sbocco inevitabile di tutta la precedente storia italiana.

Federica Bertagna – In un suo recente intervento sulla Marcia su Roma (La marcia su Roma cento anni dopo, “Passato e presente”, 117, 2022), lei ha posto molto l’accento sulla crisi delle istituzioni liberali, più ancora che sull’azione dei fascisti. Ritiene che le nostre istituzioni democratiche abbiano sviluppato una diversa, maggiore capacità di affrontare la crisi che le investe oggi?

 

Gianpasquale Santomassimo – Temo proprio di no. Nel mio intervento sostenevo che da quella crisi le istituzioni liberali erano riuscite a emergere lentamente rinnovandosi in profondità, assumendo un contenuto sociale che era mancato in precedenza: il grande compromesso che avrebbe portato al Welfare europeo e a quelli che gli inglesi definiscono “i Trenta gloriosi”, gli anni tra il 1945 e il 1975. Ma è proprio quel compromesso sociale che è andato progressivamente sbiadendo, fino a venire lentamente smantellato con le politiche di austerità e di controllo severo dei bilanci che è stato posto alla base della costruzione europea.

Federica Bertagna – Collegandomi a ciò, in che misura la globalizzazione e i vincoli posti dalle istituzioni sovrannazionali oggi possono rappresentare un freno ad avventure di tipo autoritario? O al contrario, questi stessi vincoli possono in qualche modo provocare un effetto domino?

 

Gianpasquale Santomassimo – Il cosiddetto “vincolo esterno” è stato imposto alle società europee da gruppi dirigenti che mai sarebbero riusciti a far approvare con metodo democratico le politiche di austerità nei rispettivi paesi. È stato tollerato, con malumori via via crescenti, fino a quando la situazione economica appariva stabile, ma è apparso sempre più difficile da tollerare da quando la crisi ha colpito pesantemente equilibri sociali già molto precari. Un meccanismo di sanzioni e repressioni può contenere e disciplinare tendenze centrifughe ma produce a lungo andare una insofferenza che può sfociare in crisi di rigetto anche molto aspre. Non è detto che questo provochi necessariamente “avventure di tipo autoritario”, ma può innescare effetti difficili da prevedere in tutte le loro implicazioni. Può provocare una disgregazione o addirittura una deflagrazione della struttura sovrannazionale europea, che già oggi appare in realtà in larga misura una finzione nella quale si agitano e confliggono tra loro gli interessi degli stati nazionali.

Federica Bertagna – Ricorrono frequentemente nella pubblicistica, se non nella storiografia, analogie tra le attuali democrazie illiberali o autoritarie e il fascismo storico italiano. A suo parere, la differenza tra le prime e il secondo è solo di grado o è anche di natura?

 

Gianpasquale Santomassimo – Eviterei l’uso di false analogie. E anche di categorie vaghe e nebulose, come l’onnipresente “sovranismo”. In realtà i gruppi neofascisti sono per lo più sparuti e poco influenti, e nella lotta politica non abbiamo forme di violenza lontanamente paragonabili a quelle del primo dopoguerra europeo. A mio avviso il fenomeno che abbiamo di fronte è quello di un lento ma deciso trasferimento di rappresentanza. Un processo che ai miei occhi assume una dimensione che non esito a definire tragica, ma che si dispiega senza l’uso della violenza. I ceti popolari che in passato erano stati il nerbo della sinistra si sono sentiti traditi e abbandonati e hanno sempre più rivolto il loro consenso alle destre oppure, come in Italia, ai movimenti che di volta in volta sembravano opporsi all’establishment. Si parla in Italia di una “sinistra delle ZTL”, che rappresenta ceti benestanti rinserrati nei centri cittadini e ormai lontani, culturalmente e politicamente, da quel che si agita nelle periferie. Eric Hobsbawm in una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, diceva che la sinistra “non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società”.

Grande adunata fascista Napoli XXIV ottobre MCMXXII, cartolina postale, s. d., 1922.

Grande adunata fascista Napoli XXIV ottobre MCMXXII, cartolina postale, s. d., 1922.

Intervista a Marta Verginella

Marta Verginella è professore ordinario di Storia dell’Ottocento e Teoria della storia presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Lubiana. Si occupa di storia sociale e di storia delle donne, in particolare studia le pratiche identitarie in aree multietniche e l’uso politico della storia in zone di confine. Nell’ambito del progetto ERC Eirene studia i processi di transizione nei dopoguerra del Novecento e le donne nella regione nord-adriatica. Nel 2019 è stata Visiting Fellow all’Istituto Remarque della New York University. Nella sua ricerca privilegia i temi legati alla storia sociale, alla storia della mentalità e alla storia delle donne, nonché le pratiche identitarie e l’uso politico della storia nell’area nord-adriatica. Tra le sue pubblicazioni: Il confine degli altri (Roma, Donzelli, 2008) e La guerra di Bruno: l’identità di confine di un antieroe triestino e sloveno (Roma, Donzelli, 2015); Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno (1897-1902) (Trieste, Vita Activa, 2019); Donne e confini (Roma, Manifestolibri, 2021). Il suo studio più recente sulla memoria slovena e i campi fascisti è incluso in Oto Luthar, Marta Verginella, Urška Strle, Užaljeno maščevanje (Lubiana, ZRC 2023).

Federica Bertagna – Sul piano internazionale, si guardò in generale con grande attenzione alla Marcia su Roma. Date le contese frontaliere e il precedente dell’occupazione di Fiume, immagino che la Marcia avrà sollevato forte interesse almeno in Slovenia e Croazia. Fu così?

 

Marta Verginella – La difficoltà del mondo jugoslavo nel rapportarsi con la politica interna ed estera italiana si riflette anche nella scarsa attenzione dimostrata dalla stampa slovena per la Marcia su Roma. Non soltanto i giornali editi nella Venezia Giulia, come l’Edinost o la Goriška straža, soggetti alla censura e quindi assai parsimoniosi nei commenti riguardanti l’ascesa del fascismo, ma anche quelli pubblicati in Slovenia, dedicarono all’evento qualche trafiletto o nemmeno lo riportarono. Riportarono piuttosto la notizia riguardante il discorso fatto da Mussolini a Napoli. Maggiore attenzione veniva data alla crisi governativa italiana e al possibile ruolo di Mussolini in essa. Tuttavia, quello che si nota in generale è una estraneità culturale e politica di lungo periodo che nemmeno il nuovo confine tra l’Italia e la Jugoslavia dopo il 1918 e la presenza di quasi 500.000 sloveni e croati entro i confini italiani hanno scalfito. La brutalità del fascismo è percepita molto precocemente a Trieste, dove i fascisti bruciano i libri sloveni e distruggono le sedi delle biblioteche e associazioni slovene ai primi di aprile del 1920, poi a luglio c’è l’incendio del Narodni dom e la distruzione di altri luoghi rappresentativi della presenza slovena in città. Nonostante l’intensificazione della violenza, la società slovena e la sua rappresentanza politica sperano nel mantenimento dello stato di diritto e nella possibilità di dialogo istituzionale con Mussolini e il suo entourage.

Federica Bertagna – Collegandomi a questo, al confine orientale c’era in quel momento una distinzione, nell’immagine dell’opinione pubblica, tra Mussolini e D’Annunzio e i loro movimenti, o erano visti come un insieme?

 

Marta Verginella – Per l’opinione pubblica jugoslava D’Annunzio è uno dei principali promotori dell’interventismo italiano. Se prima della Grande Guerra viene letto e recepito soprattutto come poeta e autore di testi teatrali, nonostante il suo testo La Nave (1907) auspichi l’assoggettamento all’Italia anche delle sponde dalmate, soltanto con l’impresa di Fiume diventa l’usurpatore par excellance del suolo jugoslavo. La sua impresa fiumana è intesa come una delle tappe fondamentali dell’espansionismo italiano nei Balcani e il preludio della politica di snazionalizzazione attuata dal fascismo nei confronti della popolazione slovena e croata nella Venezia Giulia, entro i confini del Regno d’Italia.

Federica Bertagna – Essendo il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi Regno di Jugoslavia, non soltanto una creazione recente ma anche uno spazio attraversato da conflitti etnici di vario tipo, ebbero questi conflitti dei riflessi nel rapporto con il fascismo italiano, prima e dopo il suo avvento al potere?

 

Marta Verginella – Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni nasce come una creazione statale fragile, tuttavia rischiamo l’anacronismo se la interpretiamo esclusivamente attraverso l’ottica del conflitto etnico. Così nel periodo tra le due guerre, come nella Jugoslavia socialista, accanto alle forze centrifughe agivano quelle centripete. Il fascismo italiano arrivò al potere con l’idea di fare del confine orientale una porta di assalto verso i Balcani. Ruggero Timues Fauro, autore fondamentale per capire il nesso tra irredentismo e fascismo, dichiara ben prima della sua ascesa che il problema di Trieste e in genere delle terre irredente “aveva ragione di esistere e doveva essere a qualunque costo totalmente risolto, solo perché era un problema nazionale italiano, il presupposto di ogni espansione italiana nel mondo”. Le élite jugoslave dopo il 1918, formatesi tra Vienna, Praga e Parigi, avevano dimestichezza con il mondo slavo, tedesco e anche francese, ignoravano invece nella gran parte quello italiano. Questa forte estraneità influirà fortemente sulla politica diplomatica dopo il 1918.

Federica Bertagna – È sempre difficile capire l’atteggiamento delle persone comuni ma almeno per i gruppi dirigenti del Regno di Jugoslavia, quanto pesava o non pesava il problema del comunismo nello sguardo sul fascismo italiano, almeno fino all’inizio della Seconda guerra mondiale? E se lei dovesse confrontare quegli sguardi con quelli di oggi, dopo la fine del comunismo e la dissoluzione della Jugoslavia, l’immagine del fascismo italiano perdura?

 

Marta Verginella – L’élite intellettuale jugoslava più radicale e preparata aderisce al comunismo già negli anni Venti. I più giovani, soprattutto quelli residenti nella Venezia Giulia, a Trieste, Gorizia, Pola comprendono precocemente gli effetti nefasti dell’ideologia fascista e auspicano una risposta armata. Ma sono in minoranza e senza mezzi. La rappresentanza della minoranza jugoslava in Italia, prevalentemente di orientamento liberale, sceglie il lealismo allo Stato italiano, nella speranza di poter patteggiare un minimo di diritti nazionali. Come sappiamo questa politica di lealtà e attendismo fu completamente sconfessata dai fatti a fine degli anni Venti. Lo stesso successe nel 1941 anche nella Provincia di Lubiana, dove le forze anticomuniste slovene collaborarono con l’occupante italiano e aderirono alla politica della fascistizzazione della società slovena. Tuttavia, bisogna notare che la società slovena attuale sa ben poco sul tema della dell’occupazione italiana della Provincia di Lubiana e sull’internamento italiano della popolazione civile slovena nei campi fascisti. E lo stesso si potrebbe dire anche per la storia del fascismo italiano. Dagli anni Cinquanta in poi nella politica di avvicinamento tra la Jugoslavia e l’Italia i temi laceranti del passato sono stati messi da parte, mentre si è iniziato a coltivare il mito della comune lotta resistenziale.

Federica Bertagna – Lei pensa che si possa parlare di un retrogusto fascista oggi, soprattutto in Croazia, in frange dell’Unione democratica croata, o nel Movimento Patriottico di Miroslav Škoro? E più in generale, ritiene che utilizzare i termini fascismo o neofascismo sia utile per analizzare partiti e movimenti politici contemporanei?

 

Marta Verginella – Nelle forze politiche dell’estrema destra croata e del centro destra croato è difficile trovare una chiaro riferimento fascista. Vi sono però, così in Croazia come in Slovenia, gruppi neonazisti che, ritenendosi eredi del movimento ustascia e domobrano, si rifanno alla genealogia nazista. Penso che i termini fascismo e neofascismo rimangono utili per analizzare partiti e movimenti politici contemporanei ma il loro utilizzo va soppesato a seconda del contesto politico e nazionale.

Alfredo Gauro Ambrosi, “Aeroritratto di Mussolini aviatore”, 1930.

Alfredo Gauro Ambrosi, Aeroritratto di Mussolini aviatore, 1930.

Intervista a Matteo Pretelli

Matteo Pretelli, dottore di ricerca presso l’Università di Trieste, insegna Storia dell’America del Nord all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Tra i suoi temi di ricerca principali, le migrazioni negli Stati Uniti; il fascismo italiano; la diplomazia culturale. È stato tra l’altro Visiting Teaching Fellow presso la New York University (2016) e Fulbright Research Scholar presso l’Immigration History Research Center dell’University of Minnesota (2008). Già vicepresidente dell’Associazione Italiana di Studi Nord Americani (AISNA), è membro del comitato di redazione delle riviste “Storia dello Sport” e “Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana”. Ha pubblicato tra gli altri i volumi Il fascismo e gli italiani all’estero (Bologna, Clueb, 2010); La via fascista alla democrazia americana. Cultura e propaganda nelle comunità italo-americane (Viterbo, Sette Città, 2012); Soldati e patrie. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale (con Francesco Fusi, Bologna, il Mulino, 2022).

Federica Bertagna – A livello internazionale, anche fuori d’Europa, si guardò in generale con grande attenzione agli avvenimenti italiani di fine ottobre 1922 articolati attorno a un episodio emblematico come la Marcia su Roma. Fu così anche nel caso degli Stati Uniti?

 

Matteo Pretelli – Oltre oceano si guardò con disagio al “biennio rosso” (1919-1920), durante il quale scioperi e occupazioni di fabbriche sembravano presagire l’avvento dei bolscevichi in Italia. Del resto, al tempo l’immagine del popolo italiano come indisciplinato e “anarcoide” richiamava vecchi pregiudizi degli anglosassoni rispetto alla presunta “inferiorità” e incapacità degli abitanti della penisola a mantenere l’ordine sociale. Nel caos postbellico i Fasci di combattimento di Mussolini ricevettero scarsa attenzione negli Stati Uniti, dal momento che all’ambasciata americana di Roma apparivano soltanto come uno dei tanti movimenti nazionalisti esistenti in quel periodo nel paese. Però, la Marcia su Roma e la nomina di Mussolini alla presidenza del consiglio nell’ottobre 1922 vennero presto salutati in maniera positiva dalle autorità statunitensi, che percepirono i fascisti come soggetti finalmente in grado di imporre l’ordine in Italia, scongiurandovi così l’affermazione del socialismo. Fu soprattutto l’ambasciatore di orientamento conservatore Richard Washburn Child (a Roma dal 1921 al 1924) che espresse il proprio apprezzamento per Mussolini e per la sua “fine young revolution”. Il diplomatico fu talmente catturato dalla figura del futuro duce che lo aiutò a scrivere un’autobiografia in inglese, in seguito pubblicata anche a puntate sul “Saturday Evening Post”, la quale contribuì a promuoverne la popolarità oltre oceano. Al contrario Henry P. Fletcher, successore di Child a Roma, ebbe assai più riserve nei confronti del primo ministro italiano, di cui denunciò le violenze al Dipartimento di Stato, salvo far presente come non vi fosse in Italia alcuna valida alternativa politica al fascismo stesso.

Federica Bertagna – In che misura le analisi della Marcia negli Stati Uniti si focalizzarono sul ruolo del leader del movimento fascista, Benito Mussolini?

 

Matteo Pretelli – Negli Stati Uniti da subito il fascismo venne identificato con Mussolini stesso, da molti indicato come una figura carismatica dotata di caratteristiche ritenute di stampo americano, quali la praticità, la modernità e il dinamismo. Visto spesso come “uomo del fare”, tale attitudine per l’opinione pubblica statunitense trovava espressione plastica nella bonifica delle paludi pontine. Il duce, però, era – nelle parole di leader sindacali come Samuel Gompers – anche l’uomo della conciliazione fra il mondo del lavoro e gli imprenditori; non a caso negli anni della Depressione economica oltre oceano molti guardarono al corporativismo fascista come a un possibile modello socioeconomico da importare per risolvere i problemi causati dalla crisi. Molti osservatori americani, in questo incalzati del resto dalla propaganda di regime, dipingevano Mussolini come un uomo di umili origini e lavoratore indefesso, che era in grado di incantare e controllare le masse. A questo si aggiungevano atletismo e mascolinità che lo rendevano non solo un’icona “turistica” ma anche un’attrattiva per la società statunitense, che fra le due guerre mondiali ammirava le figure pubbliche che facevano della corporeità uno dei propri tratti distintivi. Questo “mito” del duce venne particolarmente nutrito dai numerosi corrispondenti americani di stanza a Roma, i quali – complice anche la censura di regime – parlarono spesso in termini positivi del regime italiano, tacendone invece i tratti più deteriori e violenti. Del resto, e diversamente da Stalin, fu Mussolini stesso che cercò di alimentare questo immaginario popolare attraverso un costante contatto con i giornalisti stranieri, fra i quali un ruolo di rilievo fu ricoperto da Anne O’Hare McCormick del “New York Times”. Secondo la corrispondente statunitense, che non era a Roma nei giorni della Marcia ma che parlò sempre in maniera benevola del regime, le camicie nere erano espressione della migliore gioventù italiana che aveva permesso di rivitalizzare il paese dopo gli anni “bui” del liberalismo. Considerazioni queste che le permisero di avere un canale privilegiato per intervistare il dittatore.

Federica Bertagna – Gli Stati Uniti furono la principale destinazione dell’emigrazione italiana nelle Americhe fino alla Prima guerra mondiale. Quale fu la reazione alla Marcia su Roma e all’avvento al potere del fascismo nelle comunità italiane negli Usa?

 

Matteo Pretelli – Inizialmente gli italoamericani non si interessarono particolarmente dell’avvento del fascismo. Tuttavia, ben presto svilupparono una certa curiosità per il nuovo leader italiano, anche in virtù del generale apprezzamento da lui riscosso fra gli americani di origine non italiana e del fatto che da Roma si promuovessero politiche attive di scambio con gli italiani residenti all’estero. Il “carisma” del duce, statista peraltro ben visto negli anni Venti da molti politici e giornalisti del mondo occidentale, divenne quindi espressione di una apparente “rinata” italianità che riceveva consenso a livello internazionale. Per molti italiani che vivevano negli Stati Uniti ciò aveva una valenza psicologica non da poco. Spesso etichettati dagli anglosassoni come violenti e “inassimilabili” nella società locale, essi trovarono nel leader una figura che valorizzava l’essere italiani e spingeva all’orgoglio del gruppo etnico. E questo nonostante la stragrande maggioranza degli italiani d’America avesse scarsa cognizione, soprattutto nei primi anni di potere di Mussolini, di cosa fosse effettivamente l’ideologia fascista. Pertanto, in particolare nel corso degli anni Trenta non vi fu contraddizione per molti italoamericani nel votare in maggioranza il Partito democratico di Franklin D. Roosevelt ed esprimere allo stesso tempo affetto per la madrepatria sottoposta a una dittatura.

Federica Bertagna – Si potrebbe stabilire una distinzione, all’interno delle stesse comunità, tra le leadership delle istituzioni (associazioni, giornali) e i semplici immigrati? E rispetto a questi ultimi, il luogo comune di un’adesione al fascismo come affermazione della propria posizione di fronte alla società americana trova riscontro, secondo lei?

 

Matteo Pretelli – Nelle “Little Italies” statunitensi il consenso al regime di Mussolini fu piuttosto trasversale e interclassista. Vero e proprio ponte di Roma negli Stati Uniti furono i “prominenti”, ovvero i leader etnici di estrazione borghese, che spesso detenevano il controllo della stampa locale in lingua italiana, e che cavalcarono opportunisticamente il nazionalismo fascista, dal momento che caratterizzare le comunità su una base prettamente “nazionale” – piuttosto che su molteplici identità localistiche – consentiva di controllarle con maggiore facilità. Un filofascismo di “comodo” poteva portare alla benevolenza del regime, e quindi facilitare gli affari commerciali con la terra di origine; ma anche consentire di ottenere riconoscibilità sociale nei quartieri etnici, al punto che si cercò di ottenere delle onorificenze da Roma. Ciononostante, furono numerosi anche i semplici lavoratori di estrazione working-class che espressero apprezzamento per Mussolini, come dimostrato dal sostegno offerto all’Italia da parte di vari circoli e associazioni operaie in occasione della guerra d’Etiopia. Del resto, tale consenso si affermò anche a causa dello scarso riconoscimento che ricevettero gli esuli italiani antifascisti, spesso sommariamente identificati dagli immigrati come “comunisti”. A ogni modo, la dichiarazione di guerra di Mussolini agli Stati Uniti (11 dicembre 1941) spazzò via le simpatie per il regime, spingendo gli italoamericani a rinnegare il duce e a schierarsi pienamente a favore della campagna bellica degli Alleati. Centinaia di migliaia furono gli americani di origine italiana che prestarono servizio nelle forze armate statunitensi, comprese quelle impiegate in Italia.

Federica Bertagna – L’assalto violento al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021 ha indotto a formulare parallelismi con la Marcia su Roma (cfr. per esempio, R. B. Jensen, “Uncanny Precedent: The March on Rome”, Terrorism and Political Violence, vol. 33, 2021, p. 903-906) e ha rilanciato il dibattito sul possibile ritorno del fascismo. Secondo lei queste analogie hanno una loro utilità? Esiste un pericolo di questo tipo? O, al contrario, l’episodio può far riflettere gli storici sulla distanza tra presente e passato, tra la crisi attuale delle democrazie occidentali, e quella che sfociò in Italia nella Marcia e nella presa del potere del fascismo?

 

Matteo Pretelli – Le comparazioni storiche, soprattutto per epoche diverse, sono sempre difficili e scivolose. Studiosi come Ruth Ben-Ghiat hanno proposto dei parallelismi fra le figure di Donald J. Trump e di Benito Mussolini. Pur ritenendo che l’ex presidente statunitense non sia un fascista, Ben-Ghiat ha visto analogie nella proposta dell’immagine dell’uomo solo al potere, nella definizione di una piattaforma politica altamente confusa in risposta a periodi di crisi, nonché in una retorica incendiaria che crea un legame fideistico con i propri seguaci, parte dei quali propensi all’uso della violenza. La Marcia su Roma e l’attacco al Campidoglio presentano visivamente delle somiglianze, ma nel caso della prima la violenza, strutturata e accolta in parte del paese in chiave soprattutto antisocialista, fu strumentale per far cadere un regime, quello liberale, già al collasso. Negli Stati Uniti invece mi pare che l’uso della violenza sia stato accettato molto meno, tanto che l’ex presidente (il primo ad aver sdoganato organizzazioni di estrema destra che avevano avuto in precedenza orientamenti anti-sistema) nelle settimane successive all’attacco ha visto calare nei sondaggi il suo consenso anche fra gli elettori repubblicani (sebbene oggi molti di questi ritengano che si stia continuando a dare troppa attenzione ai fatti del 6 gennaio), vedendo anche i candidati da lui sostenuti uscire ridimensionati dalle elezioni di medio-termine. Capitol Hill deve però far riflettere anche in virtù del peso emulativo che ha avuto nell’insurrezione a Brasilia dei sostenitori dell’ex presidente brasiliano Bolsonaro. Se quindi in Italia la violenza fu funzionale all’instaurazione della dittatura, la democrazia statunitense, seppur in sofferenza, sembra sinora aver resistito alle spinte eversive. Il pericolo però è sempre in agguato, come dimostrato dai tentativi dei repubblicani che negano la legittimità dell’elezione di Biden di far eleggere a livello statale figure incaricate di certificare in futuro le elezioni; il tutto con l’obiettivo di metterne in caso in discussione i risultati. A ciò si aggiunge la volontà, talvolta già codificata in legge dalle assemblee legislative di vari stati, di limitare l’accesso al voto delle minoranze che esprimono di solito preferenza per democratici. Attacchi alla democrazia, quindi, che non penso possano essere etichettati come “fascisti”, ma che fanno suonare un campanello d’allarme per via di una crescente disaffezione globale nei confronti della democrazia stessa.

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George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990.