Il controcanto di Davide Orecchio

Impossibilita' di raccontare, necessita' di riscrivere.

Mio padre la rivoluzione1(2017) è una raccolta di racconti, ritratti, biografie controfattuali e reportage di viaggio attorno alla storia e al mito della Rivoluzione russa, dai protagonisti dell’ottobre 1917 (Lenin, Stalin e Trockij) fino a Rosa Luxemburg, Bob Dylan e il partigiano Kim.

 

Nato a Roma (1969), Davide Orecchio ha esordito nella narrativa nel 2011 con le vite reali e immaginarie di Città distrutte: sei biografie infedeli (Gaffi 2011, nuova edizione il Saggiatore 2018, premio Supermondello, finalista premi Volponi e Napoli). In seguito ha pubblicato il romanzo Stati di grazia (il Saggiatore 2014) e Mio padre la rivoluzione (Minimum fax 2017). Scrive sul blog Nazione Indiana e suoi racconti sono apparsi sulla rivista Nuovi Argomenti. Con City of Pigs ha partecipato alla raccolta Best European Fiction 2018 (Dalkey Archive Press).

 

Couverture du livre Mio Padre la rivoluzione de Davide Orecchio

Lisa Ginzburg – ll tempo è un grande protagonista di questo tuo Mio padre la rivoluzione, con esiti anche drammaturgici, come nel ricorrere dell’espressione “entra il tempo”, “entra l’anno...”. Il ritmo galoppante, incalzante della tua prosa, è dettato da questo pensare il Tempo come una sorta di entità demiurgica, o piuttosto è frutto del mondo della tua immaginazione ?

 

Davide Orecchio – Ho l’impressione di pormi la questione “come si racconta il tempo?” ogni volta che mi metto al lavoro. Dal momento che spesso scrivo biografie letterarie, o fittizie, mi capita di dover assecondare con accelerazioni e similitudini i bruschi cambi di rotta, i salti in avanti e gli omissis dei vissuti che racconto. In Mio padre la rivoluzione l’assillo è forse più evidente, e si ripercuote nello stile, nel ritmo della prosa, nelle metafore, nelle analogie, in tutti gli strumenti che sono stato in grado di mettere a disposizione del lettore. Ragiono sulla tua domanda e mi viene in mente che, in fondo, raccontare il tempo equivale a raccontare un racconto. Che cos’è infatti il tempo se non una cronaca? Potremmo dire che il mondo della vita, col tempo, scrive la propria autobiografia? I processi, gli esseri viventi e persino le idee trovano nel tempo una lingua che ne dice la nascita, la mutazione e la morte. Ma, siccome raccontare un racconto è impossibile, nel libro ho dovuto percorrere un’altra strada, già aperta e battuta da molti prima di me, mi sono “accontentato” di trattarlo come un personaggio, lasciando che attraversasse i capitoli e le storie come una creatura mitologica da prototipo greco, capace di generare e inseminare. Così, per fare un esempio, l’atto di nascita di Lenin è lo stesso di Crono: il bolscevico nasce dal Tempo, dal cui accoppiamento con le madri vengono pure gli eroi e i mostri della rivoluzione, i titani e i giganti, gli angeli caduti. E nascono gli anni, essi stessi protagonisti dei racconti: il 1917 (l’incendiario), il 1933 (il malvagio), il 1945 (il liberatore), il 1956 (il traditore) e via dicendo. Dunque, per rispondere alla tua domanda, non considero il tempo un’entità demiurgica ma l’ho rappresentato come tale perché ne avevo bisogno. Avevo bisogno che fosse un personaggio del libro. Accanto a Trockij e Lenin, a Plotkin e Stalin.

Ma il tempo che vive nelle pagine del libro corrisponde anche a quello che risiede nella nostra coscienza storica. E’ un fenomeno che non fa distinzioni tra passato, presente e futuro. Non accetta unità di misura e convenzioni lineari. Perché nella coscienza tutto è simultaneo, e la memoria tiene il passato vicino, lo serba presente. Se la storia, per citare il noto refrain di Benedetto Croce, è sempre storia contemporanea, a maggior ragione la coscienza storica è sempre presentificazione, orientamento esistenziale e pragmatico dell’individuo e delle comunità nel momento attuale della vita; è quindi un dialogo incessante tra “i presenti” e “i passati” che ho provato a rendere mediante diversi stratagemmi narrativi (capsule del tempo, miti, sabotaggio sintattico della consecutio temporum).

L. G. – Le bibliografie che riporti nelle note e che chiudono ogni capitolo/ritratto, sono mappature allo stesso tempo molto dettagliate e molto ampie. Il lettore vi trova elencati saggi ma anche autobiografie, e molta letteratura “spuria”. Come lavori dal punto di vista delle fonti? Cosa viene prima: un interesse focalizzato in senso storiografico, o invece letterario? E in genere, come procede il tuo documentarti? È libero ed errante, o segue piuttosto dei binari?

 

D. O. – Sono abbastanza metodico. Direi che continuo ad applicare gli insegnamenti appresi all’università, dove ho studiato storia. Costruisco bibliografie partendo dal generale e poi, di lettura in lettura, rendendole sempre più individuali e approfondite. Nulla di originale. E, per uno storico di formazione, tutto è fonte. Ma certo contano molto gli incontri casuali: dalle pagine di un libro emergono decine di altri libri; oppure in archivio ci si imbatte in documenti inaspettati… Mi affido anche ai consigli degli specialisti, quando posso. Devo ammettere che il mio è un lavoro “comodo”, in questo: non ha pretese di scientificità storiografica, nessuna ambizione ad essere esauriente nella ricerca. Quindi posso fermarmi e iniziare a scrivere quando mi pare e piace. Per mia fortuna non devo scrivere ogni volta una tesi di dottorato. Scherzi a parte, la fase della documentazione potrebbe non esaurirsi mai. Quand’è che uno deve, può fermarsi? Una buona spia è questa: quando inizi a imbatterti in concetti che hai già letto, citazioni che già conosci, interpretazioni che ti sei già appuntato, a quel punto non hai più scuse, probabilmente ti tocca iniziare a scrivere.

L. G. – Gianni Rodari è fonte decisiva, un suo reportage del 1969 sulla Unione Sovietica ispira un capitolo centrale del tuo libro. Decisivo in che senso? Possiamo definirlo un mediatore, un interprete, un traduttore della Storia? E di nuovo, quanto ha contato la prospettiva indicata dai suoi reportages sulla tua scrittura, sulla tua impostazione rispetto sia a letteratura che a storiografia?

 

D. O. – Rodari è stato un autore molto importante nella mia infanzia, per la mia formazione. In questo senso sì, è fonte decisiva. Ed è stato anche un interprete, un traduttore non della storia ma del comunismo, o di quello che poteva rappresentare il comunismo per un bambino italiano negli anni settanta del secolo scorso. Detto questo, devo ammettere, anche con un certo imbarazzo, che la sua presenza in Mio padre la rivoluzione è paradossalmente casuale. Lui è co-protagonista, assieme a Lenin, del capitolo/racconto intitolato Un poeta sul Volga. Ma quel racconto io non avevo alcuna intenzione di scriverlo. E’ stato davvero il dono inaspettato degli archivi. Mi chiedevo come affrontare Lenin. Non avevo ancora deciso nulla. Anzi avevo un grosso problema perché, in tutta onestà, non sapevo affatto come affrontare Lenin. Quindi sono stato fortunato. Frequentavo l’archivio della Fondazione Gramsci a Roma per un’altra ricerca, parallela ai lavori preparatori per Mio padre la rivoluzione, e mi imbattei in un fascicolo sulle celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin (1870-1970). Tra i materiali c’era un opuscolo del Pcus che conteneva istruzioni per tutti i partiti comunisti mondiali e chiedeva, tra l’altro, che inviassero giornalisti e scrittori in Unione Sovietica per raccontare la storia - o più precisamente il mito - di Lenin. In quegli stessi giorni trovai in emeroteca un reportage in quattro puntate firmato da Gianni Rodari, pubblicato nel 1969 su «Paese Sera», un importante quotidiano filo-comunista. Era un viaggio nei luoghi di Vladímir Ilich Uliánov e nel tempo della sua infanzia: la casa paterna, quella del nonno, le stanze da letto, i giochi, gli indumenti. Il nesso tra la “chiamata” del Pcus e questi articoli era del tutto evidente.

Per me il vero interesse del reportage di Rodari sta nel suo sguardo obliquo su Lenin, distante dal superuomo mitologico, attento a rievocare il bambino e i suoi luoghi, l’esserino che non è ancora diventato il padre della rivoluzione. Sono pagine scritte senza alcun monumentalismo, calibrando con intelligenza l’agiografia e mettendola spesso in sordina. Un’operazione, direi, ingegnosa: Rodari, attingendo al suo credito di scrittore per l’infanzia, evita di entrare in un santuario scomodo anche per lui, persino per lui; lascia a casa il Lenin del mito ideologico (che invece io, nel controcanto del mio racconto, recupero ed estremizzo), oppure lo sfiora in brani pieni di incertezza (quelli che riguardano il mausoleo a Mosca, ad esempio). Dove sta l’interesse, per me? Nella sintomaticità delle pagine rodariane: sono indizi di una mutazione del mito bolscevico entro il campo politico e ideologico del comunismo europeo. E questo è un altro dei temi portanti di Mio padre la rivoluzione: la trasformazione “copernicana” del mito comunista dal 1917 a oggi.

L. G. – Quella di “controcanto” mi sembra definizione molto giusta per il tuo lavoro: è un guardare diverso al passato, secondo angolature non pensate, parallele. Quanto alle varie coniugazioni del Tempo di cui dicevi all'inizio, rispondendo alla mia prima domanda, potremmo dire si aggiunge anche il tempo della metamorfosi? E che una storiografia letteraria e anche poetica, quella che ai miei occhi tu inauguri con Mio padre la rivoluzione (e che a me, da letterata, risulta così originale e feconda), possa meglio di altre prospettive cogliere il nucleo dell'evolversi del rapporto con il passato a proporzione dell'aumentare della distanza di tempo che dal passato separa? Un modo di raccontare la storia che aggira ad esempio l’ostacolo della nostalgia, perniciosamente usata oggi nelle retoriche populiste?

 

D. O. – Per rispondere alla tua osservazione vorrei riprendere quanto dicevo prima riguardo al dialogo tra i presenti e i passati. E aggiungere un elemento in più. Forse il controcanto, o anche la metamorfosi cui tu alludi, è una conseguenza della nostra nuova identità digitale. La mia impressione è che noi viventi (tutti noi) rispetto all’era analogica ormai superata abbiamo in realtà ridotto la verticalità del tempo, e scontiamo sempre meno una distanza gerarchica dal passato. I tempi della storia coabitano nelle nostre coscienze digitalizzate. È un tema che non riguarda solo la letteratura, ma proprio la nostra vita. Anche se la studiamo poco e male a scuola, anche se la ignoriamo, la storia ci è sempre presente, non ci lascia mai, ne avvertiamo il peso fortissimo sulle nostre spalle. Eppure le diamo del tu con disinvoltura eccessiva, come tra fratelli e sorelle. Poniamo le necessarie e orientative questioni esistenziali, politiche, autobiografiche al passato non più col rispetto agnatizio del Lei o del Voi che si deve al pater familias. Tutto questo ha a che fare più con la coscienza storica che con la conoscenza, e convoca le nostre lacune più che la nostra consapevolezza. In un tweet, o da un archivio multimediale, può apparirci qui e ora la foto di un cane in trincea, e che indossa la maschera antifosgene, chissà dove nella Grande Guerra. Le rughe sulla pellicola che un tempo ci avrebbero dato coscienza del tempo, oggi sono il filtro per Instagram. Anche qui la tecnologia finisce col rendere tutto presente. Anzi non esistono quasi più i tempi. Esistono i modi. “In che modo vuoi vedere? Vuoi guardare in tinta seppia o col filtro anni ’70? Vuoi percepire col filtro noir o grunge?”. Gli uomini e le donne dell’era analogica (e io ho fatto a tempo a essere dei loro) non avevano questo rapporto col passato, che per loro era più materiale, tangibile, diversamente memorizzato e introiettato, ma senza dubbio lontano, perché era impossibile resuscitarlo digitalmente. Perciò l’unico modo per riviverlo era studiarlo. Rispetto a loro ci orientiamo nel divenire in modo nuovo e rivoluzionario. Nella perpetua e a volte assai ignorante simultaneità dei tempi storici che alimenta le nostre coscienze quello che fa difetto è però la sintassi, il ragionamento, il telaio cartesiano. Abbiamo guadagnato in prossimità, ma abbiamo perso in competenza. Abbiamo ottenuto disintermediazione e informatizzazione, ma abbiamo perduto nozioni. Lo stile del mio libro, con la sua grammatica un poco sfregiata, è anche una reazione a questa nuova condizione.

L. G. – Ti chiederei di spiegare in che senso vale per il tuo lavoro una citazione che riporti nel libro e che mi ha particolarmente colpito, quella  di Marx da “L’ideologia tedesca” riportata a pagina 100:

“Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia. La storia può essere considerata da due lati, distinta nella storia della natura e nella storia degli uomini. Tuttavia i due lati non possono essere separati; finché esistono uomini, storia della natura e storia degli uomini si condizionano a vicenda. La storia della natura, la cosiddetta scienza naturale, qui non ci riguarda; dovremo invece soffermarci sulla storia degli uomini perché quasi tutta l’ideologia si riduce o a una concezione falsata di questa storia o a un’astrazione completa da essa.”

D. O. – Della citazione, il passo che mi riguarda davvero è questo: “dovremo invece soffermarci sulla storia degli uomini perché quasi tutta l’ideologia si riduce o a una concezione falsata di questa storia o a un’astrazione completa da essa”. L’esergo introduce il racconto su Stalin (Iosif Adolf Vissarionovič), nel quale il co-protagonista è un libro, il Breve corso di storia del partito comunista (bolscevico), pubblicato in milioni di copie nel 1938. In quanto a ideologia della storia e falsificazione dei fatti, era un manuale esemplare. A me interessava metterlo al centro di un ragionamento narrativo sul rapporto tra militanti e storia. In genere i comunisti, e i loro figli, e i loro nipoti, hanno conosciuto male la storia del comunismo. Spesso ne hanno appreso una versione ortodossa, canonizzata, manipolata. È una storia lunga. Inizia negli anni trenta del Novecento in Unione Sovietica, quando Stalin decise che era tempo di purghe e normalizzazione anche per gli studi storici, quando si accorse che per controllare i comunisti in patria e all’estero bisognava controllarne pure la storia, emanarne una sola versione, un verbo con le sue liturgie e relative scomuniche.

L. G. – Anche, ti chiederei di parafrasare  un'altra citazione, questa da un articolo di Neal Ascherson sulle London Review of Books, e che tu riporti alle pp. 175-176 del tuo libro:

“Le interpretazioni del 1917 e delle sue conseguenze sono talmente cambiate da renderle quasi irriconoscibili. La maggior parte dei lettori contemporanei di storia concorda probabilmente sul fatto che la “vera” rivoluzione fu quella del febbraio 1917, e che la presa del potere d’ottobre da parte dei bolscevichi fu poco più di un colpo di stato opportunistico. L’immagine di Lenin nella storia, inoltre, è diventata sempre più sgradevole. Per decenni i comunisti d’opposizione e i leader post-stalinisti hanno condannato gli abusi di potere descrivendoli come “deviazioni dalle norme leniniste”. La moda odierna, tuttavia, è di archiviare un approccio simile come pura ipocrisia intellettuale. Lenin, si dice, non offrì in alcun modo un’alternativa allo stalinismo. Fu Lenin, infatti, a creare il dispositivo di oppressione disumana che Stalin – seppure su scala più vasta – avrebbe semplicemente continuato a guidare nell’unico modo concepito per condurlo. Fu Lenin a istituire il monopolio bolscevico del potere politico, fu lui che stabilì il precedente in base al quale chiunque criticasse tale monopolio era un “controrivoluzionario”, fu lui che intrappolò i bolscevichi nella pretesa fatale di “fare le veci” di una classe lavoratrice che già nel 1921 aveva cessato di esistere. Fu Lenin, durante la guerra civile, ad autorizzare il terrore rosso – fucilazioni, sequestri di famigliari – contro i nemici del popolo. La mia sensazione è che questo approccio sia troppo rozzo per durare. La rivoluzione bolscevica fu più “autentica” e popolare di quanto oggi siamo disposti ad ammettere; giudicare la storia sovietica come una catena di omicidi è solo una scusa per non riflettere su di essa. […] Se e quando tornerà un clima oggi inimmaginabile di rivoluzione, i giovani uomini e le giovani donne leggeranno e comprenderanno Trockij e Deutscher in un modo che a noi non è più consentito.2

 

D. O. – Le considerazioni di Ascherson valgono a ricordarmi i miei, i nostri, limiti, oggi, nell’affrontare tutti gli aspetti di questa storia. Siamo ancora pienamente nell’ombra del crollo del Muro di Berlino, e della fine dei regimi del socialismo reale, per poter valutare criticamente, ossia obiettivamente, le molteplicità della stagione rivoluzionaria di fine Ottocento-inizio Novecento; un’epoca in cui il bolscevismo fu solo una variabile, una possibilità, molti anni prima di diventare l’unica possibilità. Per me l’Ottobre è solo una delle rivoluzioni. Quella che si è affermata. Quella che ha preso il potere, e poi è diventata mito e ideologia, tecnica del partito e dello Stato. Tutto il libro in realtà l’ho scritto pensando ai modelli rivoluzionari non bolscevichi che quella stagione riuscì a esprimere (i Soviet, i consigli di fabbrica gramsciani, Rosa Luxemburg…), e che il bolscevismo spazzò via.

L. G. – A p. 40., riporti Borges che cita Chesterton:

“l’uomo sa che vi sono nell’animo tinte più sconcertanti, più innumerevoli e più indecise dei colori di una foresta autunnale. […] Crede, tuttavia, che quelle tinte, in tutte le loro fusioni e trasformazioni, possano essere rappresentate con precisione per mezzo di un meccanismo arbitrario di grugniti e di strida, crede che dall’intimo […] escano realmente rumori che manifestano tutti i misteri della memoria e tutte le agonie del desiderio.”

 

D. O. – Alla fine della vita, quando il silenzio si aggiudica una vittoria annunciata, guardiamo a quello che è stato e ci sorprende la natura misteriosamente chiassosa dell’uomo. Forse era meglio adeguarsi al silenzio e risparmiare le energie, ma, se abbiamo fatto tanto rumore, almeno che ne sia valsa la pena, che non sia stato per nulla.

L. G. – Già; ma quanto al “meccanismo arbitrario” che secondo Chesterton è necessario per provare a restituire quel brusìo, tu, Davide Orecchio, senti di averlo preso in pugno, senti di dominare con sufficiente agio e certezze le libertà che ti sei preso per costruire la tua propria libertà compositiva? E spingendoci più oltre, ti sembra di avere con questo tuo approccio storiografico tanto personale e “creativo”, individuato una strada che permette riletture della rivoluzione russa? E di lì, da quell'idea di rilettura, chiavi nuove per disserrare anche componenti della storia presente?

 

D. O. – Mi sento pienamente consapevole del mio metodo su un piano estetico, per parafrasare un tuo libro: sul piano dell’invenzione pura. E mi pare anche di avere raggiunto un certo equilibrio tra onestà storiografica e libertà del racconto. Quanto alle riletture della Rivoluzione russa o di altri eventi, non posso essere io a dire se la mia chiave apra o no qualche porta. Mi pare però che per un narratore – quindi non uno storico – ci possano essere buoni spunti da cogliere.

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Minimum fax, 2017. Selezione premio Campiello, finalista premi Napoli e Bergamo.

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2

Neal Ascherson, Victory in Defeat, "London Review of Books", vol. 26 n° 23, 2 dicembre 2004, pp. 3-6 (traduzione D. O.).