Presentazione
Professoressa associata

(Università di Verona - Dipartimento di Culture e Civiltà)

Palazzo Mezzanotte ou Palazzo della Borsa

Palazzo Mezzanotte ou Palazzo della Borsa, arch. Paolo Mezzanotte, 1927-1932.

 

Statue di Leone Lodi e Geminiano Gibau ;

Scultura « L.O.V.E » (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) di Maurizio Cattelan,

che sarebbe il saluto fascista con le ditta tagliate, tranne uno.

 

 

Le curatrici e alcuni dei futuri redattori di questo dossier hanno cominciato a ragionare attorno alle questioni in esso affrontate in due seminari organizzati nel 2018 all’Università di Verona, dove si è discusso da un lato di usi pubblici del passato e ruolo degli storici nel dibattito pubblico, dall’altro delle categorie di fascismo e populismo, e dei modi in cui si utilizzano nel contesto politico contemporaneo in diversi Paesi europei e non, caratterizzato dalla comparsa sulla scena di leader, movimenti e regimi, sia di estrema destra, sia definiti genericamente populisti, ma additati sovente, al contempo, come “fascisti”, sia dai loro avversari, sia, in alcuni casi più frequentemente che in altri, dagli studiosi.

La formula delle interviste, utilizzata in modo quasi esclusivo nel dossier, è parsa quella più adatta per affrontare le due tematiche congiuntamente ma anche per aprire sul piano interdisciplinare il confronto, interpellando, oltre che specialisti del fascismo italiano e dei regimi di tipo autoritario sorti in Europa e America latina nei decenni tra le due guerre, anche studiosi di altri contesti ed epoche storiche, e appunto discipline, la scienza politica nella fattispecie.

Il nodo problematico del dossier è, dunque, l’impiego della nozione di fascismo nel presente, e l’idea di partenza era analizzare un ampio spettro di Paesi in cui sono apparsi sulla scena figure o fenomeni politici identificati come tali. Il risultato finale, ovvero l’inclusione di alcuni casi e l’esclusione di altri, è dipeso da fattori diversi:

  1. non c’era una pretesa di esaustività;
  2. l’attenzione tradizionale della rivista per alcune aree geografiche, come il mundo iberico-americano;
  3. una componente, come sempre avviene in questo tipo di operazioni, accidentale, che spiega presenze a prima vista eccentriche ma anche assenze eclatanti, e comunque un insieme in parte difforme da quello progettato inizialmente.

Opportunità che si sono create di intervistare una studiosa in grado di aprire una riflessione sull’attualità politica in contesti altri, non occidentali, come l’India, ma anche, al contrario, per alcuni casi rilevanti potenzialmente candidabili (Ungheria, Russia, Stati Uniti), la mancata disponibilità degli interlocutori individuati.

A partire da queste delimitazioni, il dossier sviluppa e articola la dialettica passato-presente secondo due linee di indagine: la prima propone diverse interpretazioni generali del fascismo storico italiano in rapporto a possibili “consanguinei” (comprende i saggi di Roger Griffin, Gianfranco Pasquino, Marc Olivier Baruch), la seconda analisi, a partire dall’oggi, di singoli casi, sia europei (Italia, Spagna, Croazia, Gran Bretagna), che extraeuropei (Brasile, Turchia, India). In chiusura, Fernando Devoto riflette sui “ferri del mestiere”, ovvero su alcuni dei meccanismi che la storiografia sul fascismo ha utilizzato e utilizza, consapevolmente o più spesso inconsapevolmente, per svolgere le sue analisi.

Un punto di approdo del dossier è il riconoscimento della necessità per chi fa ricerca di intervenire nel dibattito pubblico, pur nella consapevolezza della difficoltà effettiva di incidere, e dei rischi di semplificazioni e anche strumentalizzazioni cui si va incontro, in un ambiente talvolta inquinato da banalizzazioni o cadute di tono di una parte degli stessi studiosi (segnalano questo insieme di problematiche, in diversa forma, Ivo Goldstein, Angela de Castro Gomes, Romila Thapar). Pasquino va oltre e ci ricorda che questa partecipazione al dibattito politico è la condizione stessa di possibilità della ricerca e della scienza politica: calare i modelli nella realtà per migliorare la qualità della democrazia, e i modelli stessi.

Le interviste raccolte nella prima parte del dossier confermano il carattere polimorfo del fascismo, fenomeno storico e nozione al tempo stesso, per cui l’analisi di singoli casi rimanda e al contempo deve sempre fare i conti con le definizioni generali.

Roger Griffin parte per l’appunto da qui, dal carattere apparentemente inafferrabile del fascismo (al punto che, come segnala, alcuni hanno suggerito di limitarne l’uso al caso italiano), per sottolineare l’inevitabilità di un approccio insieme ideografico e nomotetico: anche lo studio di un singolo caso presuppone infatti una idea di fascismo generico. Nella fattispecie, Griffin ritiene che il fascismo sia stato in primis due cose: ultranazionalista, e rivoluzionario, in quanto teso alla palingenesi nazionale. In tal senso, i fascismi compiuti furono a suo avviso due, quello italiano e quello nazista. Dove è mancato l’elemento rivoluzionario (o come nel caso del franchismo dopo il 1945, è stato riassorbito), si ebbero forme di autoritarismo parafascista, ovvero ispirate variamente al modello italiano del fascismo – nelle sue diverse componenti: partito unico, formazioni paramilitari, leader carismatico – ma adattate alla specifica tradizione nazionale. Gli usi del concetto oggi sono, secondo Griffin, in realtà abusi, che al fine di denigrare ogni forma autoritaria e razzista, finiscono per svuotarlo della sua stessa valenza critica.

La lettura di Gianfranco Pasquino mette in rapporto invece il fascismo italiano con salazarismo e franchismo, tutti parte di una stessa specie di regimi di tipo autoritario, per i quali si può parlare al massimo di una mentalità comune (e qui il riferimento esplicito è a Juan Linz), non di una vera e propria ideologia. In quanto tali, questi regimi sono distinti da quelli totalitari, ideologici (comunismo e nazismo). Il fascismo italiano fu più una autobiografia della nazione che una parentesi; non fu moderno e piuttosto servì a frenare il ritmo del cambiamento. Pasquino ritiene che la sua base sociale fosse la piccola borghesia, che si sentiva minacciata (si ritrovano echi qui della nota discussione storiografica, che vedeva contrapposta questa posizione a quella di chi, come Renzo De Felice, considerava il fascismo piuttosto espressione di homines novi e ascesa sociale). In tal senso, sono possibili analogie con la piccola borghesia che oggi sceglie alcune forme di quello che oggi si definisce con una categoria piu ampia e sicuramente più abusiva, populismo, che anch’esse sono forme di autoritarismo, fermo restando che i regimi di tipo autoritario, nelle versioni che sono esistite tra le due guerre, non sono né possono essere riproposti oggi, e in tal senso nel mondo odierno è decisivo il ruolo che ha l’esercito, senza il quale nessuna forma di autoritarismo potrebbe sussistere. A modo loro, le analisi di Griffin e Pasquino riflettono anche due momenti e approcci metodologici differenti alla questione.

Molto diversa la posizione di Marc Olivier Baruch, che ritiene si abusi troppo dell’analogia con la nozione di fascismo, e dichiara di prediligere nettamente un suo uso limitato al caso dell’Italia tra le due guerre, al punto da considerare un ossimoro l’espressione “fascismo contemporaneo”. Al quesito sull’eventuale appartenenza del regime di Vichy al “campo magnetico” del fascismo, risponde, comunque, individuando gli elementi che caratterizzarono in modo decisivo il primo: l’imprinting della sconfitta, una visione essenzialista della nazione, l’anticomunismo e l’antisemitismo. Dal confronto con i connotati attribuiti al regime petainista da Zeev Sternhell, da un lato, e dall’altro con quelli che Emilio Gentile individuò per il fascismo italiano, conclude che Vichy fu eventualmente un regime “fascistoide”, poiché mancò completamente in esso la volontà di assorbire in modo totalitario la nazione.

La seconda parte del dossier affronta, approfondendo casi nazionali, la questione del ritorno del fascismo e della valenza di questa nozione/categoria storiografica per l’analisi del presente.

Anche Joan M. Thomas ritiene che il fascismo italiano, oltre che una reazione contro le sinistre, sia stato rivoluzionario e totalitario, e in quanto tale lo considera parte di una famiglia che include il nazismo ma non, diversamente da Pasquino, gli altri regimi che, se pur influenzati dal fascismo, ebbero carattere essenzialmente autoritario e conservatore, quali il franchismo e le diverse dittature sorte in Europa negli anni 30. Per quanto concerne possibili sopravvivenze, esse sarebbero solo a livello ideologico, perché nessun partito o regime può avere oggi o in futuro le caratteristiche del fascismo storico. Il contesto attuale (e qui Thomas si riferisce al contesto pre-pandemia), con la diffusa sensazione di insicurezza a livello soprattutto economico, solo in parte analoga a quella, estremamente più grave, esistente tra le due guerre, genera semmai rischi di involuzione in senso autoritario, con limitazione dei diritti e democrazie solo formalmente tali (con elezioni cioè), illiberali di fatto (di nuovo a differenza di Pasquino, che ritiene la democrazia illiberale un ossimoro). Le nuove estreme destre, nazional-populiste, sono più comprensibili, e quindi meglio contrastabili, nella corta durata che non richiamando il fascismo: sono risposte a problematiche attuali, quali la crisi economica del 2008, la globalizzazione, l’immigrazione. Un punto di contatto col fascismo storico è sicuramente l’ultranazionalismo ma nessun partito di estrema destra oggi, secondo Thomas, pensa di costruire o dice di voler construire un regime totalitario a partito unico, benché certo si possa osservare che anche il fascismo italiano, nel 1922, generava dubbi su quale sarebbe stata la sua evoluzione posteriore. Questo argomento, la sostanziale improponibilità del fascismo oggi, pare comunque rafforzato nel caso iberico dal fatto che, per Thomas, proprio la vicinanza temporale del franchismo e del salazarismo è il fattore principale che spiega il ritardo con cui sono comparsi sulla scena politica spagnola e portoghese partiti di estrema destra.

Comunque, potrebbe essere tenuto in conto anche il fatto che partiti neofascisti esistono in Europa da molti decenni e che, in vari modi e forme, un fascismo residuale o marginale è stato presente sempre nelle società europee del dopoguerra: ci si potrebbe interrogare, dunque, non soltanto sulla relazione di questi movimenti con il fascismo storico ma anche su quelle degli attuali movimenti di estrema destra con i movimenti del dopoguerra, e qui certamente è possibile ci siano sovrapposizioni di idee e di personale politico.

In tal senso, è piuttosto illuminante il contesto italiano. Sabina Loriga ripercorre l’ampio dibattito sul possibile ritorno del fascismo, che in Italia ha coinvolto da metà degli 90 storici, intellettuali, scrittori, e che la crescita elettorale delle destre, nella stessa penisola (Lega e Fratelli d’Italia) e in Europa, ha ulteriormente alimentato negli ultimi anni. Per spiegare questo dibattito ricostruisce i termini del confronto che ha visto coesistere nell’Italia dopo il 1945 il “paradigma antifascista” ufficiale e una realtà più o meno sotterranea diversa, un combinato di indulgenza nei confronti del fascismo, rifiuto dell’antifascismo e sopravvivenze di partiti e movimenti che al fascismo si richiamavano a livello ideologico o nelle pratiche violente. A partire dagli anni 90, la fine della guerra fredda, con l’implosione del sistema dei partiti interpreti del paradigma antifascista, ha determinato un duplice effetto: i riferimenti espliciti o impliciti a simbologia, fraseologia e, in alcuni casi, il ricorso a forme di violenza del fascismo, da parte di singoli o gruppi, si sono moltiplicati, nel mentre la proposta politica dei due principali partiti di destra – Lega e Fratelli d’Italia – include “ingredienti”, dal razzismo al nazionalismo sovranista, che ripropongono per l’Italia la questione delle sopravvivenze del passato, pur provenendo queste due formazioni politiche da tradizioni alquanto diverse tra loro, più collegabili, nel caso della Lega, alla linea populista (secondo la definizione che ne ha dato ad esempio Ernesto Laclau) e/o a quella antipolitica dell’“uomo qualunque”, sempre presente in Italia.

Tra chi vede con estrema preoccupazione l’emergere di partiti “fascistoidi” in Europa, soprattutto ma non solo in quella orientale, vi è anche Ivo Goldstein, che ritrova analogie con la crisi attraversata dal continente nei decenni tra le due guerre e parla apertamente di una “fascistizzazione della vita politica”, in parte legata anche al fatto che è in atto una banalizzazione del fascismo storico e del nazismo. Essa dipende pure dallo scarso peso che hanno le opinioni di chi studia per mestiere il passato, storici e scienziati sociali, nel dibattito pubblico, in un contesto segnato da una generalizzata sfiducia nei confronti di chi, in qualsiasi campo, è portatore di un sapere (la stessa che si osserva, aggiungiamo noi, in molti altri Paesi, dagli Stati Uniti di Trump al Brasile di Bolsonaro, all’Italia del Movimento Cinque Stelle, all’Argentina di ieri e di oggi). Il caso croato, in tal senso, comunque è emblematico: l’uso politico del revisionismo storico va di pari passo con la sistematica rimozione dei crimini della Croazia Ustascia, esaltata come Stato indipendente.

L’analisi del dibattito in Gran Bretagna è articolata attorno ai tre interventi di Matthew Feldman, Julie Gottlieb, Robert Saunders. Feldman, avvicinandosi in questo a Griffin, segnala i paradossali esiti cui si è giunti soprattutto dagli anni 90 in poi con un uso indiscriminato del concetto generico di fascismo come stigma politico, per cui indistintamente a sinistra ma anche a destra si bolla come fascista qualsiasi fenomeno politico sgradito. Come altri intervistati, lega questa deriva all’ambiguità del concetto di fascismo, che era già tale nei decenni tra le due guerre: il movimento e poi partito in Italia, e insieme le proiezioni internazionali di un’ideologia che, anche in quanto “latecomer” rispetto a liberalismo e socialismo, come Feldman sottolinea sulla scia di Juan Linz, funzionò come una sorta di “spazzino”, raccogliendo e fondendo elementi presi a sinistra e a destra. Nel caso inglese, a giudizio di Julie Gottlieb, all’indubbio fallimento elettorale del partito di Oswald Mosley, e alla forte identità antifascista dei maggiori partiti, ha fatto riscontro una persistenza nella cultura politica e nella società inglese stessa di quello che Gottlieb chiama, richiamando lo scrittore italiano Umberto Eco, “Ur-fascismo”, che ha trovato espressione in forme populiste di destra dopo la Seconda guerra mondiale. Secondo Robert Saunders, si può affermare che Mosley abbia anticipato queste tendenze populiste, col suo dichiararsi interprete della autentica volontà popolare contro il Parlamento. In tal senso, Saunders ritiene che la miglior forma di contrasto alle attuali derive autoritarie della democrazia sia nella difesa dell’idea di pluralismo contro le concezioni del popolo come un tutto unico, che mirano a cancellare il diverso e il dissenso.

Apre le analisi di casi extraeuropei Angela de Castro Gomes. La studiosa brasiliana sottolinea che il il termine fascismo è diventato di uso corrente in Brasile dopo l’elezione alla presidenza di Jair Bolsonaro nell’ottobre 2018 ma è più un uso mediatico che accademico, legato alla connotazione assolutamente negativa nell’immaginario collettivo del concetto, e che serve perciò a far arrivare forte un messaggio al grande pubblico: i rischi (ulteriormente accresciuti oggi, rispetto al momento dell’intervista, 2 ottobre 2019) di una deriva autoritaria della democrazia brasiliana. De Castro Gomes Considera in generale poco utile impiegare la categoria fascismo fuori dal contesto, l’Europa dei decenni tra le due guerre, in cui è nata e comunque la ritiene del tutto inadatta per descrivere le esperienze storiche latinoamericane: queste infatti furono, a partire dal regime di Getulio Vargas negli anni 30 in Brasile, esperienze di Stati autoritari, vale a dire di Stati che detenevano interamente il potere, nazionalisti, ma che non mobilitavano la società, semmai il contrario. E si potrebbe aggiungere, a tale riguardo, che lo stesso nazionalismo, nei movimenti di destra ed estrema destra latinoamericani, fu sempre qualcosa di molto diverso da quello aggressivo europeo, in quanto declinato piuttosto in una chiave antiimperialista, derivante spesso dalla situazione di dipendenza economica e subalternità politica dei Paesi che lo esprimevano.

In questo senso, anche il dialogo con Romila Thapar mostra quale estrema cautela sia necessaria ogni qualvolta si voglia trasporre concetti politici da un contesto, temporale e/o spaziale, ad un altro. Interrogata, infatti, sul nazionalismo dell’attuale capo del governo indiano, Narendra Modi, e del suo partito, che appare sempre più aggressivo contro la minoranza musulmana, la studiosa introduce nell’analisi un elemento rilevante di differenziazione: quello rappresentato dalle forme in cui si arrivò alla costruzione di Stati nazionali democratici in Paesi, come appunto l’India, che avevano un passato di colonie. In India il processo di indipendenza fu guidato da un movimento nazionalista laico, che voleva unire in chiave anticoloniale il Paese, ma erano presenti due altre forme minoritarie di nazionalismo, espressione di due identità religiose, rispettivamente musulmana e indù, le quali, in realtà, erano state costruite dall’azione dei colonizzatori: gli inglesi infatti interpretarono l’India come Paese composto da due nazioni, appunto indù e musulmana, plasmandolo di fatto come tale dall’800 in poi. Nel processo di trasformazione di una società gerarchica in società di cittadini con uguali diritti, al principio democratico si è progressivamente sostituito quello che Thapar chiama una forma di “colonialismo interno”, inteso come imposizione di una maggioranza predeterminata sulla minoranza: la maggioranza è quella della nazione indù, in questo caso, di cui il partito di Modi si dichiara interprete, o meglio con cui si auto-identifica, secondo, per Thapar, un classico schema populista (ma, a questo punto, potremmo chiederci se la volontà di eludere il concetto di fascismo non porti comunque ad adoperare un altro concetto estremamente scivoloso nella sua illimitata estensione).

Anche uno dei due interlocutori del dialogo sulla Turchia, Ruşen Çakır, ritiene che sia il populismo la categoria che meglio descrive il carattere del governo dell’attuale presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e nuovamente, come con Modi in India, saremmo di fronte alla strumentalizzazione di un’identità religiosa, quella islamica nella fattispecie: Erdoğan afferma, infatti, di incarnare la “volontà popolare” della nazione musulmana, che si erge contro i nemici interni ed esterni, mentre di fatto ha progressivamente eroso i diritti e costruito un potere autoritario e una leadership di tipo personalistico dentro il suo stesso partito. È interessante notare, peraltro, che, come osservato da de Castro Gomes in Brasile per l’opposizione a Bolsonaro, anche in Turchia per gli oppositori di Erdoğan il riferimento al suo “fascismo” funziona come arma di mobilitazione, a riprova della potenza evocativa che il concetto mantiene anche fuori d’Europa, per quanto Hamit Bozarslan, interpellato anch’egli sul caso turco, ritenga che quello del presidente Erdoğan non sia fascismo (precisa che di attrazione per il modello del fascismo italiano si può parlare, in Turchia, solo nei decenni tra le due guerre ma senza che vi fossero, in quel momento, le condizioni per realizzare un regime di tipo totalitario) ma piuttosto “antidemocrazia”, nel senso di negazione della democrazia liberale, a carattere ultranazionalista, elemento quest’ultimo comune ad altri contesti, come la Russia di Vladimir Putin.

Due casi, quello indiano e quello turco, che con le loro specificità ci ricordano l’estrema complessità di ogni operazione storiografica basata su strumenti quali la comparazione o l’analogia, come Fernando Devoto ci mostra nel contributo che chiude il dossier, ma ne mostrano anche, si può aggiungere, l’indubbio interesse e il valore euristico potenzialmente alto. Sui quali, peraltro, così come sulla capacità delle metafore (poiché l’analogia implica, quasi sempre, una metafora) di promuovere, se non nuove conoscenze, almeno nuove idee, il lettore del dossier potrà pronunciarsi meglio di qualsiasi guida ufficiosa, per stabilirne possibilità e limiti.

All’inizio della crisi sanitaria, ci chiedevamo se il nostro dossier potesse apparire fuori posto, o persino obsoleto. Non sembra sia così. I partiti di destra in tutto il mondo hanno cercato di trarre profitto dall’emergenza sanitaria. Hanno offerto letture cospiratorie, hanno chiesto la chiusura delle frontiere e hanno criticato le misure di confinamento1. Ed è in questo contesto che, grazie a Chiara Dal Canto, abbiamo scoperto il lavoro di Sosthen Hennekam sulle architetture di Milano, già culla del fascismo e negli ultimi mesi una delle città più colpite dalla pandemia di Covid. Lo ringraziamo per la sua partecipazione al dossier, così come ringraziamo tutti gli studiosi che hanno generosamente risposto alle nostre domande.

Fotografo e designer Sosthen Hennekam, olandese di origine e italiano di adozione, si trasferisce prima a Venezia per poi approdare a Milano. La sua innata passione per la fotografia lo porta, nel corso degli anni, alla sperimentazione di diverse tecniche fotografiche influenzate dal lavoro di artisti di spessore internazionale come Pino Musi e Greg Gorman.

 

E sono proprio i ritratti di Greg Gorman, rigorosamente in bianco e nero, che lo portano ad elaborare un personale e rigoroso approccio alla fotografia di architettura, sua altra grande passione. Ogni scatto è di fatto il “ritratto” di un edificio e proprio come per un ritratto, l’immagine viene epurata da tutti quegli elementi, che lui definisce “inutili distrazioni”, che impediscono una lettura immediata del manufatto architettonico. Il risultato è un immagine basata sui classici canoni dell’arte.

 

Il lavoro sui “Ritratti di Architettura Milanese” lo portano a sviluppare un progetto parallelo ossia la mappatura, attenta e sistematica, del patrimonio architettonico della città attraverso la combinazione del suo lavoro fotografico unito alle preziose informazioni ricavate dai numerosi archivi milanesi. Il risultato è un database di architettura con oltre 5000 edifici, unico per completezza e quantità di informazioni e che, nel tempo, continua ad arricchirsi.

 

Il lavoro qui pubblicato si concentra sull’architettura del ventennio fascista caratterizzata dai vari stili e correnti che coesistevano in quell’epoca e che vanno dal Movimento Novecento al Razionalismo passando per il Moderno Internazionale con i suoi richiami al simbolismo fascista. La propaganda di regime era spesso espressa attraverso l’inserimento nelle facciate e all’interno degli edifici stessi, di statue, mosaici ed opere d’arte più in generale, raffiguranti battaglie e gloriosi eroi di imperiale memoria, conferendo a queste architetture un monumentalismo tipico di questo periodo storico.

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Vedi: Jean-Yves Camus, « Les partis d’extrême droite européens et la crise du Covid-19 », fondation Jean Jaurès.